Anna Lombroso per il Simplicissimus

Già non mi piaceva “mio, mio”, da concedere ragionevolmente solo ai bambini in età prescolare. Poi ho cominciato a sospettare anche di “nostro”, soprattutto da quando due militari della marina, mandati senza autorizzazione del parlamento a fare da vigilantes a navi private per trasporti opachi,  e che si sarebbero macchiati della colpa di aver sparato a due pescatori scambiandoli per “pirati”, sono diventati i “nostri marò”. Ma anche quando erano “nostri”,  i soldati impiegati in azioni di guerra, denominate spericolatamente missioni umanitarie, esportazioni di democrazia, anche quelle spesso  prive del consenso parlamentare, e “nostri” gli affari per lo più sporchi conclusi dalla “nostre” aziende grazie ad alleanze strette con i “nostri” discutibili alleati. E che dire del “nostro” patrimonio d’arte, del “nostro” paesaggio, del “nostro” bene comune, il Mare Nostrum, le “nostre” risorse, il “nostro” territorio.

Deve essere stato allora che ho finalmente capito che quando governanti (quelli del “nostro” Stato, buono per essere munto e come elemosiniere), ceto politico e imprenditoriale (quello delle “nostre” fabbriche e dei “nostri” operai), opinionisti, sociologi, addetti all’uso provato della storia un tanto al chilo, parlano col noi, e definiscono “nostro” un bene, una ricchezza,  un diritto, un privilegio e una prerogativa, vogliono intendere che è “loro”, secondo una interpretazione proprietaria, monopolistica ed esclusiva. Sono talmente “loro” che si sentono legittimati a decidere autoritariamente della loro sorte, a goderne in forma elitaria, a ridurli a merce per trarne profitto, a offrirne l’uso in comodato in cambio di consenso, quattrini, voti, affiliazione in cerchie privilegiate, conservazione di rendite di posizione  e potentati.

Invece sono sempre davvero “nostri”  doveri, colpe, responsabilità, oneri, obblighi fiscali e non, compresi quelli   della   generosità e della coesione sociale: basta pensare  alla popolarità della  proposta irridente ripetuta a chi richiama all’impegno dell’accoglienza solidale, di ospitare i disperati a casa sua, rivolta ai “buonisti” da cattivisti incalliti, da chi evade le tasse e protegge perfino con leggi e riforme elusione, corruzione, malaffare e da chi la provoca e incrementa quella disperazione con le armi, lao sfruttamento, l’emarginazione.

Adesso, come sempre succede, siamo in piena campagna di collettivizzazione del compianto e del dolore per i “nostri” morti. Che ci raccomandano di piangere in silenzio per non disturbare il manovratore, dedicando loro la nostra compassione, la nostra carità e la nostra solidarietà, ma esimendoci da denuncia, sorveglianza e vigilanza dal basso, necessarie invece più che mai non solo per esperienze del passato, ma anche per via della tenace opera di denigrazione e esautoramento degli organismi di controllo: sovrintendenze, uffici tecnici, assimilati a fastidiosi soloni, molesti disfattisti, gufi importuni capaci solo di creare ostacoli alla “loro” crescita.

Lo sappiamo bene che sono davvero “nostri” quei morti, perché li piangiamo davvero anche se non li abbiamo sulla coscienza, così come è “nostro” questo paese bello, trascurato e offeso, senza la retorica patriottarda di una pietas e di una appartenenza “tribali”, che assumono forme artatamente perverse, quelle del “noi contro loro”,  quelle di chi aizza noi poveri contro loro più poveri, che ci rubano case, lavoro, servizi, quelle di chi dice “prima di tutti, noi”, poi in ultimo gli ultimi, via dalle tende, via dalle mense, via dalle caserme diroccate e insane, via da fantomatici hotel di lusso, via dalle panchine, via dai bus, via dagli ospedali.

Non si preoccupavano dei “nostri” morti, quando erano vivi, non si preoccupavano del “nostro” territorio, dei “nostri” bisogni. E, passata la fase dei titoli in prima, delle dirette, della elaborazione pubblica del lutto, se ne dimenticheranno presto, o, peggio, li ricorderanno per approfittarne come icasticamente ha indicato il loro cantore, rimettendo in moto la “nostra” economia e incrementare il “nostro” Pil, con i grandi cantieri edilizi, come all’Aquila,   se non esercitiamo i “nostri” doveri e se non reclamiamo i “nostri” diritti di cittadini.