statua_pistolaLa guerra del Vietnam cominciò che non ero ancora passato per il primo giorno di scuola e finì che ero già laureato, ma se ne cominciò a parlare solo dopo l’incidente del golfo del Tonchino quando cioè ero al ginnasio e divenne il calco della guerra imperialista mentre ero al liceo e all’università, senza che nemmeno si conoscessero le stragi compiute dai bombardamenti in Cambogia o quelle derivanti dalla campagna aerea terroristica su Hanoi e Hai Phong o di My Lai e senza che la stampa occidentale riportasse il fatto che gli Usa, pur nel contesto di un dominio sostanziale dell’aria persero quasi mille tra caccia e bombardieri negli scontri con la piccola aviazione Nord vietnamita addestrata in Cina, una notizia decisamente inopportuna. La mia cronologia scolastica serve a riannodare ricordi di cose completamente sconosciute alle generazioni più giovani che di quella guerra hanno appreso dai film americani, dunque priva di qualsiasi contesto riguardante il nemico, cosa che per altro accade anche con i conflitti di oggi.

E tuttavia a distanza di tanti anni, in un territorio temporale dove non si ha ancora storia in senso proprio, ma solo una cronaca depurata dalle scorie più grossolane  della propaganda di allora, molte cose di quella guerra sfuggono. Tutti, compreso ovviamente il sottoscritto, inquadravano il conflitto  nell’ambito della guerra fredda, della battaglia fra capitalismo e socialismo reale, delle aree di influenza e della politica nazionale, tanto che le cronache della guerra fecero anche delle vittime politiche come Enrica Pischel che su Rinascita doveva scrivere con lo pseudonimo di Silvia Ridolfi per evitare di essere licenziata dall’Ispi , Istituto per gli studi di politica internazionale, dove era ricercatrice. Ma alla fine fu cacciata lo stesso dall’Istituto ahimè ancora esistente e che agisce sotto il cappuccio di Washington. In realtà l’intervento americano iniziato certo come una specie di seconda Corea aveva significati più ampi e purtroppo attualissimi. Basta ricordare le parole pronunciate dal presidente Johnson nel 1966 e recentemente riportate da Noam Chomsky. In un discorso dedicato alle truppe schierate in Vietnam cercò in qualche modo di giustificare una guerra poco sentite con questa straordinaria affermazione: “Noi siamo solo 150 milioni mentre loro sono 3 miliardi e se la forza crea il diritto ci prenderanno ciò che abbiamo; ci spazzeranno via e si prenderanno quello che abbiamo, quindi in Vietnam dobbiamo difenderci”. Qui bisogna stare bene attenti ai numeri. A quell’epoca la popolazione americana era di 180 milioni non di 150, ma questa è la cifra giusta se si sottrae il numero dei neri, dei nativi e delle altre minoranze etniche di origine asiatica e latina (allora assai meno numerose di oggi). Dunque Johnson parla dell’america bianca, cosa non del tutto sorprendente per un personaggio chiamato da Kennedy alla vicepresidenza proprio per non alienarsi i segregazionisti del Sud.  Ma poi chi sono quei tre miliardi? Non certo i Nord vietnamiti e nemmeno gli abitanti del mondo comunista: basta prendere il vecchio atlante De Agostini per accertarsi che in quell’epoca 3 miliardi era l’intera popolazione mondiale: il boom demografico del terzo mondo che oggi ha più che raddoppiato quella cifra, anche grazie a una demografia più accurata, era appena agli inizi.

Questo ci fa comprendere come la battaglia contro il comunismo non sia stato solo un fine, ma soprattutto un mezzo per imporre un ordine mondiale, opera che paradossalmente è cominciata proprio con l’esaurirsi dell’esperimento  sovietico. Ciò che è successo dopo era già in qualche modo scritto e detto: non la dissoluzione della Nato dopo la scomparsa del grande nemico, anzi il suo illogico potenziamento e trasformazione in strumento per i fini esclusivi di Washington praticamente in tutto il globo, la continua azione per il controllo delle aree strategiche per posizione geografica o per risorse, la sfacciata pretesa di condizionare Paesi vassalli con le buone, con le cattive o con lo spettro di una democrazia ridotta a fantoccio, la creazione artificiale di guerre e “liberazioni” inesistenti, l’uso improprio dello strumento militare per favorire la propria economia e le proprie multinazionali. Insomma tutto ciò che vediamo oggi con estrema chiarezza, compresa l’ossessione drammatica, ma non senza tratti grotteschi e ridicoli di “circondare”, provocare e rovinare Paesi che si annunciano o riannunciano come rivali.

In questa incessante lotta contro quei tre miliardi che nel frattempo sono diventati sette, le amministrazioni americane hanno dovuto sempre più cercare e comprare o imporre l’alleanza delle altre elites, si tratti dell’Europa o dell’America latina, risucchiando democrazia come un’idrovora e lasciando al comando oligarchie subalterne e proprio per questo fedeli per impotenza. Tutto ciò che ostacola questa globalizzazione elitaria a guida americana entra nel mirino ed è sottoposta, a sanzioni, a terrorismi, a guerre se proprio non può essere comprato. Ma certo ora il gioco di fa più duro, le stesse logiche a base di un’ideologia assurda, hanno creato avversari potenti e l’impoverimento a cui queste stesse logiche portano, rischiano di portare scompiglio nella tela di ragno. Ma visti i presidenti che si annunciano forse c’è ancora Saigon nel destino di Washington.