Chairman-Mao-Tse-tungC’è poco che mi possa irritare come quella televisione paludata che spesso spaccia propaganda spiccia e rozze vulgate d’oltreoceano per cultura, ma alle volte l’operazione è talmente ingenua che ne rimango affascinato. L’altra sera per esempio ho fatto un bagno nella tarda democristianità  degli anni ’80, quando un tizio, spacciato per politologo in mancanza di autorevole carica accademica, pontificava sulla rivoluzione culturale cinese negli stessi termini e con lo stesso spirito con cui avrebbe potuto farlo un Taviani o un Cossiga, solo reso più tranchant dalla temporanea vittoria del mercato e dunque dotato della tracotanza a posteriori di chi si sente vincitore e portatore di verità. Solo dopo ho appreso che il politologo in questione, esperto di estremo oriente, ma un po’ altalenante sulla pronuncia corretta di Shangai, è stato fellow della Transatlantic Academy, uno dei luoghi  eminenti dell’eccezionalismo americano e oggi figura come vicepresidente del Torino word affairs institut un  centro legato alla Compagnia San Paolo, ovvero la maggiore fondazione bancaria italiana. Il suo capo, vale a dire la presidente, ha invece insegnato presso la  Scuola Universitaria lnterfacoltà in Scienze Strategiche, quella che fa il military Erasmus, tanto per intenderci.

Insomma siano nel cuore pulsante delle incubatrici del pensiero unico, dove vengono allevati e poi accarrierati i prescelti a perpetuare il verbo: a posteriori non si fa a difficoltà a vedere l’origine dei ragionamenti grossolani su Mao e sulla Cina, tutti rigorosamente prigionieri dell’ossessività anticomunista di marca americana.  Ma a già a priori sorprendeva il tono da propaganda sulla guerra fredda, senza che tutti gli anni passati e una realtà cinese inimmaginabile trent’anni fa, avessero avuto il bene di affinare certe grossolanità di giudizio. Comunque sia la cosa è stata interessante a dimostrazione di come sia facile l’adulterazione del giudizio: per esempio veniva presentata in maniera fortemente negativa (si trattava di un reportage di Antonioni) il fatto che gli operai vivessero in caseggiati adiacenti alla fabbrica. La stessa cosa fatta in Europa, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso viene invece solitamente presentata come un esperimento all’avanguardia, ma quello che più importa è che nello stesso periodo, gli anni ’60, la ” vita di fabbrica” con i grandi insediamenti abitativi nelle vicinanze dello stabilimento produttivo attuato dai tycoon dell’industria giapponese veniva invece invidiata in occidente per l’efficienza che comportava e proposta come un possibile modello.

Del resto chi ha un po’ d’anni ricorda bene di quale aura mistica fosse circonfuso il Kibbutz israeliano, grazie al quale fioriva il deserto e di quale peso negativo fosse gravato il Kolkoz, considerato come una delle tare del sistema comunista: peccato che fossero entrambi fattorie collettive non basate sulla proprietà fondiaria e che il Kolkoz fosse molto più vicino a forme di produzione agricola del tutto normali  in occidente e  ancora praticate fino a pochi decenni fa come la mezzadria e la soccida. Il fatto è che con queste pesantezze da ideologia unica, non si capisce affatto come la Cina degli apparenti disastri della rivoluzione culturale sia divenuta la fabbrica del mondo e l’economia industriale di gran lunga più potente del pianete nel giro di pochi decenni. Forse bisognerebbe vedere qualcosa verso cui siamo divenuti sordi e ciechi.  Ma probabilmente  ai piraña che si aggirano nelle acque turbolente del mercatismo non interessa capire, quanto replicare all’infinito la nenia sulla ruota di preghiera del profitto. Anzi l’impressione è che mai come oggi non chiedano altro se non di essere lasciati alle loro sostanza oppiacee per evitare di essere interrogati sulla realtà.