ED-img6826955Non so chi possa davvero aver creduto in una ripresa nel bel mezzo di un raffreddamento globale degli scambi e di una deindustrializzazione forzata del Paese che ha avuto il suo acme simbolico nell’abbandono anche formale della Fiat già peraltro annunciato da tempo: per quanto si potesse aver fede in Renzi e nella sua corte dei miracoli, magari preparando il cuore di raso come ex voto e un sì per il referendum costituzionale, per quanto si potesse essere accecati dal salmodiare mediatico sul job act, non c’era alcun elemento che inducesse a ipotizzare una qualunque crescita reale al di là di dati statistici sul pil ampiamente edulcorati e deformati in radice dagli stessi metodi di calcolo. Ma la situazione è tale che nemmeno la matematica del potere riesce a salvare il guappo di Rignano e l’Istat ha dovuto ammettere una stagnazione totale nel secondo trimestre: la crescita annua che doveva essere all’1% si ritira su uno 0,6 % rispetto allo stesso periodo del 2015, ma solo grazie a correzioni al ribasso fatte per l’anno passato, in attesa di vedere come andrà male la seconda metà dell’anno e quali saranno gli infimi numeretti della commedia renziana.

Del resto è evidente che se il debito pubblico aumenta nonostante i colpi di machete inferti al welfare, alla sanità, alle pensioni,  alla scuola, vuol proprio dire che siamo messi malissimo. Ma non è di questa evidenza che voglio parlare, quanto dei tempi della statistica e dei modi con qui questi sono calibrati in funzione della narrativa di governo: normalmente le cifre ufficiali dei trimestrali Istat escono due mesi dopo la fine del periodo di riferimento o anche dopo tre mesi se si tratta del 4° trimestre che conclude l’anno. Di solito i dati del secondo trimestre che si conclude a Giugno escono dal 30 agosto ai primi di settembre. Ma questa volta no, essendo fortemente negativi sono stati diffusi con grande anticipo l’11 agosto perché la loro uscita coincidesse con il picco delle vacanze e comunque con il periodo di minor attenzione alle notizie. Renderle note a periodo di ferie e concluso e già nel cono d’ombra elettorale  del referendum costituzionale sarebbe stato deleterio per il guappo, mentre in questo modo la notizia della stagnazione sarà già stata digerita e le chiacchiere avranno di nuovo campo libero.

Ovvio che di fronte a questi dati diventa anche più difficile per Renzi  trovare soldi per qualche miserabile elemosina pre elettorale o chiedere a Bruxelles qualche favore speciale in cambio della sua fedeltà e della sua promessa implicita di grecizzare l’Italia. Anzi diventa difficile far pensare agli oligarchi che è ancora l’uomo giusto per mantenere nella cattività europea il bel Paese, specie dopo che la Gran Bretagna del brexit ha realizzato un + 0,6% solo nel secondo trimestre di quest’anno. L’impressione è che sia all’interno che all’esterno i padroni del vapore siano tentati dal cambiare faccia anche se non possono farlo nel bel mezzo di un referendum che vede nella manipolazione della Costituzione in senso autoritario (che altri significati potrebbero avere un Senato non elettivo, dunque di competenza dei potere e una legge elettorale ultra maggioritaria?) qualcosa per cui si stanno spendendo senza risparmio l’oligarchia europea, Confindustria, Soros, banchieri e top manager al punto che persino i siti di trading online si sono messi a fare propaganda per il Sì. Senza dire che una vittoria del No sarebbe un  ulteriore colpo alle logiche austeritarie dopo l’uscita della Gran Bretagna e la quasi certa elezione di Hofer in Austria.

Fino a novembre gli sponsor della riforma sono costretti a tenersi l’asino cotto, ma dopo lo manderanno a casa in ogni caso: a calci in culo subito se perde, con una  sostanziosa liquidazione se vince.