Ma tutto questo ha bisogno non solo dell’oscura e terribile minaccia di isolamento dal contesto dei buoni e ligi desideranti, ha anche bisogno di un linguaggio specifico, di trappole, deviazioni e artefatti di lessico. Ieri, parlando di terrorismo ho accennato alle dominanti semantiche che reggono il gioco della paura e non si dice certo una novità se il discorso pubblico con le sue chiacchiere rituali, ancorché convulse, monotone nella loro loro cacofonia apparente, utilizza gli stessi trucchi e tunnel mentali rivelatisi fondamentali per sostenere il consumo. E’ così che da un quarto di secolo è piombato sulla testa dei consumatori l’aggettivo professionale, in un periodo nel quale ancora si tentava qualche traduzione dall’inglese. E’ quasi sempre una definizione inconsistente, portata via via ai confini del grottesco tanto che ormai persino gli spazzolini da denti o i materassi sono diventati professionali e indispensabili per chi è iscritto all’albo dei dottori in pennichella comparata. Così per fare foto di famiglia alla gita fuori porta si comprano reflex tropicalizzate adatte a lunghe permanenze nella giungla misteriosa o si comprano 4×4 con le marce ridotte per posteggiare in seconda fila. Se non hai qualcosa di “professionale” sei un poveraccio, uno sfigato perché nell’epoca del dilettantismo rampante non si può rinunciare agli strumenti di un sedicente professionismo ancorché questo non esista o abbia bisogno di tutt’altro. E’ chiaro che definire professionale un qualunque ammennicolo svaluta immediatamente tutti gli altri, anche se più utili, adatti all’uso che ne facciamo e spesso anche migliori: ma naturalmente è un aggettivo che costa caro.
Nell’ultimo quindicennio la rete ha diffuso una certa aspettativa di gratuità di certi servizi e funzioni, dunque non facile cominciare a farli pagare senza rischiare di uccidere la gallina delle uova d’oro o suscitare ostilità. Così è nato l’aggettivo premium come paravento semantico: la parola occhieggia in senso molto vago a una vincita, al regalo, all’eccellenza, all’importanza (in ambito inglese) senza che l’imbonitore di turno debba scomodarsi a definire quest’ultima, non ha il vigore popolano, ma ormai sgamato di super o extra, ma non ha nemmeno qualche preciso riferimento connotativo al lusso o alla qualità: è solo premium ovvero a pagamento o con aumento di prezzo, l ‘esatto contrario di quanto viene indirettamente suggerito. Laddove il vero premiato è solo il profitto. Ciò che prima era offerto gratuitamente ora è fornito dietro compenso senza che però la parola lo dica esplicitamente o lo faccia semanticamente intuire. E ovviamente l’uso è dilagato, perché un servizio o un livello premium non dice assolutamente nulla, non impegna a qualcosa, deve solo essere un’esca linguistica, un etichetta per qualsiasi vino. Ora non si fa fatica a immaginare come queste tecniche applicate alla politica e alla cronaca possano totalmente deformare il significato del discorso pubblico o molto più spesso toglierli qualsiasi significato al di fuori dell’emotività. Termini come democrazia o sinistra, possono essere usate in qualsiasi significato, per incasellare Erdogan e Poroshenko o derubricare legittimi governi che tuttavia non si piegano, fino all’assurdo di definire Renzi sinistra. Ma non è curioso e infame l’uso di libertà di coscienza attribuito di solito ai temi vaticano sensibili? Come a dire che al di là di questi ambiti la coscienza non esiste, che il Parlamento è privo di coscienza quando fa leggi sul lavoro o ruba ai poveri per dare ai ricchi. Sembrerebbe paradossale, ma in effetti è così, la coscienza è esattamente un qualcosa che non significa non significa nulla e tutto a seconda delle convenienze. E’ una coscienza premium. Come c’è la democrazia premium.
L’importante è l’aura delle parole non il significato, così se premium vi fa cascare nel tranello dei vampiretti delle startup, altre vi fanno cadere nell’abisso senza fondo e senza senso delle macroeconomie, senza nemmeno che ve ne accorgiate. Per esempio la parola competizione sembra di per sé intuitiva, è accompagnata da un alone positivo, si narra che faccia diminuire i prezzi (anche i salari se è per questo, ma non ditelo in giro), che sia una fortissima spinta per l’innovazione oltre che una irrinunciabile dimensione antropologica. In realtà un grande guru dell’informatica, ossia del settore di maggior sviluppo da un terzo di secolo, considera la competizione come la peste del XXI ° secolo: secondo Nicholas Negroponte , fondatore del Media Lab del Mit, essa banalizza tutto. ” Il Media Lab laurea 50 studenti all’anno ma mentre in passato la metà di loro si dedicava a grandi problemi ora invece si occupano tutti delle sciocche e piccole start up che rubano soldi e fanno solo cose buffe”. Si buttano via grandi talenti per occuparli in fesserie del momento e non in progetti di grande respiro e portata. Ed è così che idealmente torniamo ai portacenere mancanti delle Bmw.