incirlik-airbase-600x334Le cose turche si vanno chiarendo perché con l’assedio alla base americana di Incirlik dove si trovano 80 testate atomiche, l’ipotesi di un autogolpe di Erdogan perde consistenza, nonostante il sultano di Ankara ne abbia tratto il massimo vantaggio per rafforzare il suo potere, mentre prende corpo l’idea che il suggerimento per il colpo di stato sia venuto da Washington che infatti ha atteso di vedere come andavano le cose prima di pronunciarsi a favore della democrazia, o meglio per quella del sultano. Ora tutti i fili portano oltre atlantico: lo si vede dai rapporti diplomatici degli ultimi mesi, dal dibattito politico americano in cui il golpe era preconizzato e invocato, dal fatto che Fethulá Gülen, il nemico giurato del sultano, vive in Usa come esule ricoperto di onori e attenzioni, ma soprattutto la logica ci suggerisce che solo contando sull’appoggio del grande fratello una piccolissima parte di uomini e ancor meno di alti gradi, abbia potuto pensare di rovesciare Erdogan. Un’azione di quel tipo, dimostrativa più che risolutiva, aveva senso solo facendo affidamento sul consenso occidentale.

Certo si è trattato di un errore grossolano dell’amministrazione americana che come ho avuto modo dire ieri sta perdendo contatto con la realtà, si appoggia a corpi diplomatici che non conoscono una singola parola della lingua del Paese in cui operano, né della loro cultura,  a intelligence poco capaci e anch’esse del tutto estranee al contesto locale , a personaggi di cui non possono misurare l’attendibilità e per il resto alla tecnologia che peraltro serve a pochissimo senza una base di comprensione. Pensavano che liberarsi di Assad fosse una questione di pochi mesi, pensavano che Putin non avrebbe reagito in Ucraina e pensavano che i militari turchi fossero ancora il loro zuccolo duro in Turchia, una pedina da giocare incondizionatamente. Erano rimasti vent’anni indietro. Ma in questo caso si sono trovati a fare i conti con qualcosa di più e di inaspettatato: a una popolazione che non ha minimamente appoggiato il tentativo di golpe, anzi l’ha contrastato, a opposizioni che sono rimaste sostanzialmente ostili al tentativo militare e nel complesso a una Turchia che vuole un suo spazio autonomo nell’area e non accetta di rientrare nel disegno della Nato sotto il pastore della Casa Bianca.

Non ci troviamo dunque di fronte a un golpe fallito contro un sultano, ma al crepuscolo della Nato e del tentativo Usa di uccidere il policentrismo nella culla, qualcosa dunque di epocale sotto molti punti di vista anche perché l’alleanza atlantica prima ancora di essere una confraternita militare che si è perpetuata senza alcun senso dopo la caduta del grande nemico, è essenzialmente uno strumento delle elites contro i cittadini. Per questo l’enorme potenza militare degli Usa, sommata a quella degli alleati, una volta perso il proprio obiettivo, è stata diretta contro un nemico marginale e spesso creato ad arte, che allo strapotere tecnologico può opporre solo gli attentati che, certo fanno un numero di morti incomparabilmente inferiore a quelli inferti in tutta l’area che va dal Nord Africa all’ Afganistan, ma che suscitano allarme e paura. Un nemico ideale che tra l’altro ha favorito la sovrapposizione della Nato alle istituzioni europee. Forse è anche per questo che una stampa paludata e abituata a demonizzare qualsiasi cosa vada oltre le verità ufficiali facendone tutto un fascio col complottismo, è diventata a sua volta complottista, asserendo la tesi dell’auto golpe di Erdogan: è l’ipotesi meno moralmente onerosa per gli Usa e per la Nato.

In ogni caso è evidente che ci troviamo di fronte ad una situazione completamente inedita e gravida di conseguenze globali: la Turchia non è un piccolo Paese, debole e arretrato, ma la seconda forza dell’alleanza atlantica e può permettersi di circondare la più grande base americana allestita contro la Russia, impedire il decollo e il sorvolo dei caccia Usa, prendere in ostaggio 3000 mila uomini, senza che di fatto Washington possa fare nulla, nemmeno la voce grossa. Non può bombardare e invadere, nemmeno minacciare di farlo sia per ovvie ragioni geopolitiche, sia perché gli Usa temono i turchi: li hanno utilizzati nelle loro guerre quando i marines non si rivelavano in grado di farlo e sanno che cosa gli costerebbe l’uso della forza. Così questa vicenda non è solo l’ultimo fallimento di Obama e delle sue ambiguità, ma è anche il primo collasso della Nato, una dimostrazione della sua debolezza e anche della sua cecità, che arriva subito dopo il Brexit: le strutture create nel dopoguerra, cresciute nella guerra fredda e successivamente adibite a scopi del tutto diversi, ovvero favorire il dominio delle oligarchie e dei loro interessi, cominciano a sfasciarsi. Adesso bisognerà vedere se la Nato cercherà riscatto in Ucraina dove ammassa carri armati e truppe cecene, arabe e polacche, essendo quelle di Kiev inaffidabili. Sarebbe folle e delinquenziale, ma è quello che succede alle tigri quando cominciano a diventare  di carta.