Anna Lombroso per il Simplicissimus Miracolosamente appartati  e protetti dall’acqua, stavano appollaiati nelle casupole costruite come nidi di uccelli acquatici, su saline emerse dagli  acquitrini, su  isole naturali insieme a quelle formatesi coi materiali portati dai fiumi,  su relitti di dune e barene.   Oggi i veneziani minacciati da orde barbariche di fuori e in casa, non potrebbero trovare riparo come allora in quelle barene: all’inizio del Novecento, quando i predoni decisero del futuro industriale della Città, costituivano più del 25% della superficie lagunare, oggi ridotte a meno dell’8%. Sono servite come discarica per rifiuti tossici, ma anche per realizzare uno degli aeroporti più arrischiati d’Europa, per il Tronchetto da stipare di auto, ma anche per un inceneritore. La laguna da “pianura liquida”, secondo la definizione di Mommsen, è diventata un vuoto da riempire, per appagare ogni domanda di trasformarla nel terreno adatto all’accumulazione, propizio al profitto e alla speculazione.

L’eclissi dell’industrializzazione non ha fermato la forsennata corsa: cinque o sei anni fa la Fondazione Pellicani, creatura di un candidato sindaco trombato, malgrado l’appoggio del più schizzinoso dei suoi predecessori, per una volta di bocca buona, presentò un progetto visionario, che per fortuna fece la fine di altre megalomani improvvisazioni sul tema “Delenda Venetia”, sottovie, metropolitane, Expo, torri di Cardin a mò di imperitura memoria faraonica del sarto, che ogni tanto però riaffiorano come mefitici fiumi sotterranei. L’dea era nientemeno che quella di accontentare il “bisogno di case dei veneziani” (sic) – notoriamente ridotti a 83.775 isole comprese, espulsi, cacciati via, sfrattati, espropriati di servizi, negozi al dettaglio, luoghi di cura, mentre centinaia di abitazioni sono state retrocesse a seconde case, case vacanza, strutture ricettive,  residence – realizzando 4000 case galleggianti in Laguna, quartieri attrezzati appoggiati su piattaforme a pelo d’acqua fissate al fondo lagunare grazie a pilastri d’acciaio.

Per ora l’oltraggio non è stato compiuto, per ora però. Ma altri sono a buon punto se è comune all’iniqua alleanza di amministrazione (il sindaco sogna uno skyline sul quale si staglino grattacieli in stile Dubai da tirar su Marghera, che tanto è già disgraziata per conto suo, ma suggestivi per chi sta steso sul lettino ai margini della piscina di quell’obbrobrio  chiamato Albergo Stuky), speculatori finanziari, addetti alla svendita del patrimonio cittadino, costruttori, scavatori, istituzioni, amministrazione, la convinzione che Venezia abbia bisogno di “allargarsi” per respirare, per modernizzarsi, strappando la terra alla laguna e all’acqua. Quella imbrigliata dal Mose, prodigiosa opera ingegneristica particolarmente “ingegnosa” nel catalizzare malaffare, corruzione e devastazione preliminare a interventi ricostruttivi a cura sempre dello stesso artefice, il Consorzio, e  del quale uno studioso dell’Università di Padova, D’Alpaos, ha recentemente denunciato gli effetti mai davvero studiati e accertati in sede progettuale, visto che sono da sempre commissionati al concessionario:  «il cambio di direzione della corrente in alcuni rii interni della città; l’aumento della velocità dell’acqua in entrata e in uscita; le correnti sotto il ponte translagunare, da sempre zona di spartiacque e dunque di acque ferme».

Preoccupanti ricadute insomma, sullo stato idraulico della Laguna (il Cnr denuncia che per i cassoni del Mose sono state scaricate mezzo milione di tonnellate di cemento sott’acqua e nelle   tre bocche di porto interessate dai lavori,   l’abbassamento del terreno è nell’ordine di molti centimetri) e di conseguenza sulla sua salute e qualità, che sono trattate come le solite profezie di cassandre disfattiste e misoneiste, intente a ostacolare il fantasioso processo futurista per la Venezia del domani, da consegnare ai corsari , che non si arrendono nemmeno ai limiti imposti per ridurre il tenore inquinante dei combustibili, da sacrificare in nome delle smanie dei sottoscrittori del patto scellerato che hanno generosamente ridotto le pretese allo scavo del canale di Tresse, per far passare i mostri del mare, come vogliono gli incontentabili armatori, l’autorità portuale, le multinazionali turistiche, Confindustria, il Consorzio, incaricato come al solito dell’unico moto perpetua realizzato, scava e riempi, riempi e scava, inquina e disinquina, butta giù e tira su, perché non si possono deludere i forzati delle crociere che vogliono rimirare Venezia dall’alto, perfetta inquadratura da selfie e simbolica conferma di superiorità rispetto a una cittadinanza ridotta a formichine.

Torcello, trono di Attila
Torcello, trono di Attila

Insieme a Firenze ne ho parlato qui:  a Vicenza (dove Icomos, il braccio operativo  dell’organizzazione dell’Onu, ha chiesto chiarimenti al Comune in relazione al potenziale impatto della base Del Din, del complesso di Borgo Berga e del futuro passaggio della Tav, in particolare nella parte che prevedeva la realizzazione di un tunnel sotto Monte Berico), anche Venezia è oggetto di una “istruttoria” dell’Unesco, che ha rilevato problemi che potrebbero collocare la città tra i siti a rischio e che ha dato un termine nel prossimo febbraio a Stato, istituzioni e amministrazione cittadina per dare “chiarimenti”. Traffico eccessivo (una pudica definizione del passaggio dei condomini  galleggianti), continuo incremento del numero dei turisti rispetto a fronte del calo dei residenti e conversione  di residenze in appartamenti ad uso turistico, portano alla conclusione che la fatale  combinazione di grandi opere e trasformazioni  nella città storica, già avviate e in essere, incluso l’ampliamento dell’Aeroporto, lo scavo di nuovi canali profondi per la navigazione, il nuovo terminale portuale, il cambio di destinazione del tessuto abitativo in  edifici a finalità  turistica  producono una irreversibile perdita dell’identità storica, culturale, civile, di Venezia.

Tante volte mi sono chiesta se non ci sia qualcosa di malato, di perversamente patologico nella volontà di profanare, oltraggiare, contaminare la bellezza dei luoghi e che si combina con l’indole allo sfruttamento, al profitto rapace, alla svalutazione e alienazione anche morale dei beni comuni. Se non sia un istinto che muove a cancellare i valori della democrazia, esemplarmente indicati nella Costituzione, a avvilire lavoro e istruzione, a perseguire la retrocessione del popolo in esercito di schiavi mobili e ricattati e, insieme, a distruggere memoria,  cultura, arte, passato per appagare un presente che nega la storia per non farci sperare in un domani.

Forse a Venezia non ce la faranno, forse qualcuno anche senza saperlo si rifà alla sua epica, ma anche a quella storia di dignità e riscatto scritta da un piccolo uomo balbuziente, timido, ma determinato che riuscì a battere l’impero e a realizzare una libera repubblica. In questi giorni i suoi cittadini stendono a centinaia stendardi e drappi, innalzano bandiere, si infilano magliette e berretti, parlano, gridano, discutono, manifestano per dire al mondo che Venezia deve tornare dei veneziani, perché solo così può essere del mondo, di tutti quelli che la sognano, desiderano vederla, ci sono stati o non ci verranno mai, ma la amano e la rispettano, perché è la promessa che l’utopia può essere realizzata.