Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ormai chi voglia esprimersi fuori dal coro della narrazione del pensiero di regime e dei suoi cantori deve obbligatoriamente fare una dichiarazione preventiva, chiamarsi fuori con i necessari distinguo e le doverose riprovazioni. Quindi ripeto che aborrisco violenza sanguinaria e i suoi crimini, che condanno atti terroristici di chi si sceglie vittime rappresentative e simboliche o spara nel mucchio o sgozza gente intenta pacificamente a ascoltare della musica, che biasimo chi li commette da crociato, da soldato di Allah, da mercenario al servizio del dio profitto o in nome, come succede, della coincidenza di due di queste fedi.
Assolto questo compito, non posso nascondere il fastidio suscitato dalla lettura dei giornali, dalle dichiarazioni del premier e del governo secondo la retorica che fa di imprenditori che vanno all’estero in cerca di fortuna, eroi quotidiani, pionieri avventurosi e coraggiosi che tengono alto il nome del Paese e propagano la fama del Made in Italy. Missionari del “sistema Paese”, alla pari, anche se su scala minore, dell’audace Marchionne, delle dinastie industriali che hanno preferito convertire le produzioni in profittevoli azionariati, dei dinamici delocalizzatori che approfittando di un giorno festivo, spostano aziende e macchinari in territori più propizi.
Con pennellate epiche è stata dipinta l’enclave degli italiani brava gente di Dacca come una domestica “colonia”, portatrice di benessere ed educata, superiore civiltà divulgata in un paese miserabile, conservatore e ostile a laiche e democratiche libertà di culto e di espressione, tanto che si sono susseguiti gli assassinii di blogger invisi alla religione di stato, con governi autoritari, repressivi e ciecamente clericali, con leggi che autorizzano i genitori a mandare i figli minori a fare gli schiavi in fabbriche, dove non esistono diritti e dove la povertà e l’oscurantismo hanno creato l’humus favorevole alla penetrazione della Jihad.
Ci raccontano che vivevano tranquilli, grazie alla finora inviolata protezione di uno status privilegiato e alla sicurezza di auto con autisti, case sorvegliate, club esclusivi, proprio come si è sempre vissuto in luoghi separati e preservati dalla cruda realtà di un posto del quale abbiamo sentito parlare diffusamente, per poi dimenticarlo, quando il 24 aprile del 2013 il mondo civile si è svegliato accorgendosi improvvisamente del “lato oscuro” della moda, quando 1.130 operai sono morti e altre 2.250 persone sono rimaste ferite durante il crollo di Rana Plaza, in una grande azienda multinazionale tessile a partecipazione anche italiana.
Ci mostrano i santini commemorativi, presentando questi imprenditori come membri di una onlus nazionale, impegnata a creare lavoro e a fare proselitismo sociale mentre producevano jeans alla cui fabbricazione cucitura erano probabilmente addetti donne e ragazzini, perché certamente non vanno messi sullo stesso piano lo sfruttamento della prostituzione e la pedofilia con la produttività. E pensare che non fu certo un rivoluzionario, ma addirittura un presidente della Banca Mondiale, James Wolfenson a dire che quando una metà del mondo all’ora di pranzo guarda in tv l’altra metà del mondo che muore di fame, c’è qualcosa che non va nella nostra civiltà.
E c’è qualcosa che non va di sicuro se l’Ice nel sito dedicato al Bangladesh scrive che il Paese è una destinazione favorevole per i nostri imprenditori: le nostre esportazioni hanno raggiunto il valore di 320 milioni di euro nel 2014, il 60% dei quali rappresentati dalla meccanica strumentale. Nel Paese attraggono soprattutto alcune export processing zone, zone industriali nelle quali e’ possibile produrre godendo di agevolazioni di tipo fiscale, finanziario e normativo. Secondo le stime dell’ufficio studi di SACE, attraverso un miglior presidio di questo mercato le nostre imprese potrebbero guadagnare circa 126 milioni di euro di esportazioni aggiuntive entro il 2018. E secondo la Sace nell’ultimo decennio il Bangladesh ha intrapreso un percorso di crescita economica, trainato dalle esportazioni e dagli investimenti produttivi esteri, grazie soprattutto a un fondamentale punto di forza: una manodopera qualificata e conveniente, con il costo del lavoro piu’ basso in Asia dopo quello del Myanmar. Il comparto tessile, nel quale è strategica la presenza italiana, dà lavoro a circa 4 milioni di persone e vale circa il 13% del Pil e l’80% dell’export; negli ultimi tre anni ha triplicato le vendite estere, che nel solo 2013 hanno realizzato una crescita del 13%, raggiungendo i 21,5 miliardi di dollari.
Ma ci sarebbero delle controindicazioni, secondo le nostre agenzie attive nella cooperazione e nell’internazionalizzazione, legate alle infrastrutture carenti, ad un sistema burocratico inaffidabile, al deterioramento dell’ordine pubblico ed alla corruzione. Che poi invece per gran parte degli imprenditori rapaci della nostra contemporaneità, costituiscono il vero appeal, l’attrattiva, perché permettono di fare là quello che ancora non si potrebbe fare da noi, anche se le basi della definitiva globalizzazione sello sfruttamento sono state messe da riforme e politiche, dallo smantellamento dell’edificio di diritti e garanzie.
Nessuno merita di morire, sul lavoro e per il lavoro, nessuna attività dovrebbe contemplare il rischio di essere sgozzato o di cadere da un’impalcatura, o di essere seppellito a dieci anni sotto le macerie di uno stabile. Se ne ricordino quelli che aspirano a fare dell’Italia il Bangladesh.
Secondo me, è anche grazie ad articoli come questo e a interventi sui social e blog vari dello stesso tenore, che, nell’edizione serale del TG2, ieri, si è cercato di porre sotto una luce migliore una delle vittime dell’attentato, l’imprenditrice catanese A. Puglisi, affermando che, per sua iniziativa, si era stabilito di distribuire “generosamente”, all’interno dell’azienda tessile fondata lì a Dacca, quote partecipative della ditta ai manager locali della stessa. Così come si è posto l’accento sull’impegno pluridecennale nel volontariato (anche all’interno della Croce Verde, in Italia, in svariate occasioni di emergenza occorse in passato sul suolo patrio) dell’altra imprenditrice italiana nel settore tessile (per conto di una multinazionale con sede centrale a Londra) morta nell’attacco terroristico di venerdì, la torinese Claudia D’Antona, da vent’anni attiva in Bangladesh.
Tuttavia, anche queste doverose sottolineature delle ammirevoli doti di solidarietà ed empatia umane mostrate da queste vittime in particolare — come pure da altre — dell’attentato, non riescono a cancellare lo sdegno per lo sfruttamento del lavoro minorile e per le condizioni di sicurezza zero e di orari di lavoro da lager cui le maestranze di queste aziende tessili (non certo i manager, locali o meno) erano e sono sottoposte, ovviamente in cambio di stipendi da fame e della proterva assenza di sistemi assicurativi-sanitari e contributivo-pensionistici degni di un paese civile. Non posso dimenticare l’intervista condotta dallo staff di Riccardo Iacona, per una puntata di Presa Diretta, un paio d’anni fa, in cui una giovanissima vittima dodicenne o tredicenne del tragico incidente scoppiato, nell’aprile 2013, alla fabbrica tessile della capitale, sopravvissuta sì alla catastrofe ma mutilata di un piede e di una mano, raccontava che si era vista offrire in risarcimento della perdita degli arti, da parte di un capo-reparto impietosito, nientepopodimeno che (come direbbe Totò) un succulento piccione.
Infine, trovo molto interessanti le informazioni aggiuntive sullo stato dell’arte della politica e dell’economia bengalesi introdotte dal commento di Learco.
Anche qui, però, avrei delle mie personali considerazioni da fare: non oso più mettere in discussione il fatto che l’Is e la Clinton siano andate meravigliosamente a braccetto per un bel pezzo, e siano tuttora in buoni rapporti, al di là della faccia truce d’ordinanza che l’ex First Lady, al passo con tutti i grossi calibri istituzionali dell’Occidente “sconvolto e indignato”, esibisce a telecamere e microfoni di mezzo mondo in occasione di questa e altre stragi, ma vorrei azzardare altre interpretazioni della piega tenebrosa che potrebbero aver assunto gli accordi commerciali Dacca-Pechino da poco siglati.
Non potrebbe darsi che, come controparte per la appetitosa riscossione dei diritti d’attracco alle petroliere cinesi nel porto di Chittagong, il governo cinese abbia imposto al partner bengalese l’apertura in patria di molte filiali (foriere di tanti nuovi posti di lavoro) di ditte d’abbigliamento cinesi o comunque controllate, per la gran parte dell’assetto partimoniale e azionario, dall’amministrazione statale di Pechino? Non potrebbe, di conseguenza, quest’ultima, vedere nelle ditte già ben avviate in loco, spesso a conduzione italiana, altrettante pericolose rivali da mettere quanto prima fuori gioco?
La maschera del fondamentalismo islamico è, dopo tutto, composta di materia piuttosto elastica e si adatta a far da copertura a capitalismi e colonialismi vecchi e nuovi, senza troppi distinguo geo-politici e ideologici.
L’ha ribloggato su apoforetie ha commentato:
quando una metà del mondo all’ora di pranzo guarda in tv l’altra metà del mondo che muore di fame, c’è qualcosa che non va nella nostra civiltà.
Resta il mistero di un attentato compiuto mentre il Bangladesh ha firmato una serie di accordi economici e militari con la Cina, che ottiene, tra le altre cose, la possibilità di utilizzare il porto di Chittagong, il più importante della zona dopo Mumbai e Colombo, per far attraccare le megapetroliere che trasporteranno il greggio verso le zone industriali della Cina.
Gli USA avevano manifestato irritazione per questi accordi.
Nel Gennaio del 2015 il premier dello Sri Lanka filocinese era stato sostituito da un leader filoamericano, proprio, si sospetta,per questioni relative al porto di Colombo.
Quando gli interessi americani vengono minacciati l’IS, stranamente, entra in azione.
Ma, come ha detto una volta Hillary Clinton, una che con gli attentati e i bombardamenti ci va giù pesante: “L’IS lo abbiamo creato noi americani”.