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Manifesto pre elettorale creato dopo le dichiarazioni contro la Brexit del Ceo di JP Morgan il quale ricordava che il 36% delle vendite in Europa delle compagnie americane si svolge  tramite la Gran Bretagna, naturalmente a spese dell’erario di altri Paesi. 

La Gran Bretagna è uscita dall’Europa. In realtà c’è sempre stata a mezzo servizio e negli ultimi anni da quando ha rifiutato di firmare i trattati per l’austerità o ha contrattato ampie autonomie proprio per evitare il brexit, era nella Ue giusto pro forma. Dunque il terremoto che viene narrato intorno alle borse  è frutto di una emotività riferita alle stesse drammatizzazioni  pre elettorali prodotte dai poteri finanziari, europei e americani: sono le bugie che tentano per un piccolo spazio di tempo di tradursi da ectoplasmi narrativi in realtà. Alcuni giorni prima del voto  – vissuto in un’atmosfera da tregenda appositamente creato e tale da dar luogo al primo assassinio di un parlamentare in carica dopo due secoli – Wolfgang Münchau, tra i più famosi editorialisti del Financial Time, oltre che di fede ordoliberista, dunque insospettabile, aveva scritto:“Durante le conversazioni con i funzionari europei continuo a sentire ripetere un argomento rivelatore: se la Gran Bretagna votasse per uscire dall’Ue e ciò venisse visto come un successo, altri paesi membri potrebbero seguirne l’esempio. Perciò questo pericolo deve essere stroncato sul nascere. Questo modo di ragionare rivela l’implicita ammissione che la Brexit potrebbe funzionare dal punto di vista economico. Più precisamente, chi ragiona così teme che un eventuale successo post-Brexit tolga agli europeisti ciò che essi ritengono essere il proprio argomento più forte: la paura dell’ignoto.”

E’ ovvio che si tenterà a tutti i costi di evitare un successo della Brexit, ma è anche chiaro che lo choc degli ambienti finanziari deriva soprattutto dal fatto che per la prima volta dopo trent’anni il processo di riduzione della democrazia nel continente europeo subisce una battuta di arresto: si è riusciti ad evitare che i cittadini si pronunciassero sulla cosiddetta costituzione e quando lo hanno fatto con risultati non conformi si sono rimandati gli elettori alle urne o si è imbastito qualche trucco (vedi Lisbona) per superare il fastidioso empasse. Si era riusciti persino a sterilizzare i referendum che chiedevano la separazione dai rispettivi Paesi di Catalogna e Scozia che avrebbe avuto come effetto il dover ricontrattare le condizioni per una permanenza in Europa. Ma adesso il dado è stato tratto e i cittadini britannici hanno detto no non tanto all’Europa, quanto alle sue regole dettate dalle banche e dalle multinazionali. Un vero scandalo per gli oligarchi di Bruxelles, per l’Fmi, per i think tank del medioevo prossimo venturo, per Washington, un segnale che oggi la battaglia di classe al contrario diventerà meno scontata, che certe prassi del liberismo selvaggio rischiano di essere messe in forse. Ed è un segnale, che si sta esaurendo la presa di una narrazione volta a dare alla Ue un significato cosmopolita, essendo sempre più chiara la sua opposta natura di gabbia e di subalternità.

Ecco il motivo del dramma che c’entra assai poco con l’uscita in sé della Gran Bretagna, ma molto con un nuovo clima che si va coagulando e che non si è riusciti a contenere nonostante le minacce di sciagura di economisti, monetaristi, sociologi e personaggi destinati soprattutto a creare una completa confusione fra di due campi nel tentativo di mischiare le carte a tal punto  da rendere minoranza un’opinione di minoranza. Gli stessi che hanno applaudito Cameron quando ha strappato Bruxelles la possibilità di non considerare più i cittadini europei alla stessa stregua cioè con gli stessi diritti di quelli britannici e di dare avvio a normative xenofobe ora dicono che si è trattato di un voto razzista. Certo nel voto hanno contato un numero immenso di fattori, ma il risultato è proprio quello tenuto dalle oligarchie ossia la rinascita dell’Europa dei popoli in contrapposizione a quella delle elites autoproclamatesi al comando come prestanome del liberismo. Chiaro che adesso si apre una stagione tesa, inquieta e frenetica nella quale nulla sarà risparmiato per suturare questa ferita inflitta all’egemonia anche da parte degli stessi governi di Londra che probabilmente cercheranno di sabotare il risultato del referendum, visto che gli ambienti conservatori nelle settimane scorse hanno prodotto decine di interrogazioni e creato altrettanti per strappare  di strappare l’impegno al mantenimento delle prebende ai ricchi immobiliaristi , alle aziende e ai latifondisti ) non vengano toccate visto che sono prevalentemente di provenienza europea. I cittadini, britannici e soprattutto non britannici dovranno lavorare non per esorcizzare ciò che è avvenuto e stigmatizzarlo, ma utilizzandolo per cambiare l’Europa: Bruxelles è oggi molto più debole di ieri nelle sue pretese e nei suoi diktat perché per la prima volta si trova di fronte a un rifiuto ufficiale, incontestabile e popolare, qualcosa che rischia di avere un effetto domino. E qui si misurerà anche la presenza in vita delle forze progressiste, di quella sinistra che finora non è stata in grado che di produrre Tsipras e che ora da suicida incallita qual è, si appresta a screditare l’evento attribuendolo semplicisticamente allo spirito xenofobo.

Il problema però non è tanto uscire o rimanere, ma capire qual’è il piano più efficace per porre freno alle rapine e alla dissipazione, quale sia il terreno migliore per spezzare il circuito fra potere e denaro. Forse l’Europa delle banche e delle multinazionali con il suo peso schiacciante per quasi tutti i singoli Paesi  e che si appresta a varare il Ttip? O i singoli Paesi dove la politica è più a portata d’uomo? La Gran Bretagna sarà un grande laboratorio.