La Gran Bretagna è uscita dall’Europa. In realtà c’è sempre stata a mezzo servizio e negli ultimi anni da quando ha rifiutato di firmare i trattati per l’austerità o ha contrattato ampie autonomie proprio per evitare il brexit, era nella Ue giusto pro forma. Dunque il terremoto che viene narrato intorno alle borse è frutto di una emotività riferita alle stesse drammatizzazioni pre elettorali prodotte dai poteri finanziari, europei e americani: sono le bugie che tentano per un piccolo spazio di tempo di tradursi da ectoplasmi narrativi in realtà. Alcuni giorni prima del voto – vissuto in un’atmosfera da tregenda appositamente creato e tale da dar luogo al primo assassinio di un parlamentare in carica dopo due secoli – Wolfgang Münchau, tra i più famosi editorialisti del Financial Time, oltre che di fede ordoliberista, dunque insospettabile, aveva scritto:“Durante le conversazioni con i funzionari europei continuo a sentire ripetere un argomento rivelatore: se la Gran Bretagna votasse per uscire dall’Ue e ciò venisse visto come un successo, altri paesi membri potrebbero seguirne l’esempio. Perciò questo pericolo deve essere stroncato sul nascere. Questo modo di ragionare rivela l’implicita ammissione che la Brexit potrebbe funzionare dal punto di vista economico. Più precisamente, chi ragiona così teme che un eventuale successo post-Brexit tolga agli europeisti ciò che essi ritengono essere il proprio argomento più forte: la paura dell’ignoto.”
E’ ovvio che si tenterà a tutti i costi di evitare un successo della Brexit, ma è anche chiaro che lo choc degli ambienti finanziari deriva soprattutto dal fatto che per la prima volta dopo trent’anni il processo di riduzione della democrazia nel continente europeo subisce una battuta di arresto: si è riusciti ad evitare che i cittadini si pronunciassero sulla cosiddetta costituzione e quando lo hanno fatto con risultati non conformi si sono rimandati gli elettori alle urne o si è imbastito qualche trucco (vedi Lisbona) per superare il fastidioso empasse. Si era riusciti persino a sterilizzare i referendum che chiedevano la separazione dai rispettivi Paesi di Catalogna e Scozia che avrebbe avuto come effetto il dover ricontrattare le condizioni per una permanenza in Europa. Ma adesso il dado è stato tratto e i cittadini britannici hanno detto no non tanto all’Europa, quanto alle sue regole dettate dalle banche e dalle multinazionali. Un vero scandalo per gli oligarchi di Bruxelles, per l’Fmi, per i think tank del medioevo prossimo venturo, per Washington, un segnale che oggi la battaglia di classe al contrario diventerà meno scontata, che certe prassi del liberismo selvaggio rischiano di essere messe in forse. Ed è un segnale, che si sta esaurendo la presa di una narrazione volta a dare alla Ue un significato cosmopolita, essendo sempre più chiara la sua opposta natura di gabbia e di subalternità.
Ecco il motivo del dramma che c’entra assai poco con l’uscita in sé della Gran Bretagna, ma molto con un nuovo clima che si va coagulando e che non si è riusciti a contenere nonostante le minacce di sciagura di economisti, monetaristi, sociologi e personaggi destinati soprattutto a creare una completa confusione fra di due campi nel tentativo di mischiare le carte a tal punto da rendere minoranza un’opinione di minoranza. Gli stessi che hanno applaudito Cameron quando ha strappato Bruxelles la possibilità di non considerare più i cittadini europei alla stessa stregua cioè con gli stessi diritti di quelli britannici e di dare avvio a normative xenofobe ora dicono che si è trattato di un voto razzista. Certo nel voto hanno contato un numero immenso di fattori, ma il risultato è proprio quello tenuto dalle oligarchie ossia la rinascita dell’Europa dei popoli in contrapposizione a quella delle elites autoproclamatesi al comando come prestanome del liberismo. Chiaro che adesso si apre una stagione tesa, inquieta e frenetica nella quale nulla sarà risparmiato per suturare questa ferita inflitta all’egemonia anche da parte degli stessi governi di Londra che probabilmente cercheranno di sabotare il risultato del referendum, visto che gli ambienti conservatori nelle settimane scorse hanno prodotto decine di interrogazioni e creato altrettanti per strappare di strappare l’impegno al mantenimento delle prebende ai ricchi immobiliaristi , alle aziende e ai latifondisti ) non vengano toccate visto che sono prevalentemente di provenienza europea. I cittadini, britannici e soprattutto non britannici dovranno lavorare non per esorcizzare ciò che è avvenuto e stigmatizzarlo, ma utilizzandolo per cambiare l’Europa: Bruxelles è oggi molto più debole di ieri nelle sue pretese e nei suoi diktat perché per la prima volta si trova di fronte a un rifiuto ufficiale, incontestabile e popolare, qualcosa che rischia di avere un effetto domino. E qui si misurerà anche la presenza in vita delle forze progressiste, di quella sinistra che finora non è stata in grado che di produrre Tsipras e che ora da suicida incallita qual è, si appresta a screditare l’evento attribuendolo semplicisticamente allo spirito xenofobo.
Il problema però non è tanto uscire o rimanere, ma capire qual’è il piano più efficace per porre freno alle rapine e alla dissipazione, quale sia il terreno migliore per spezzare il circuito fra potere e denaro. Forse l’Europa delle banche e delle multinazionali con il suo peso schiacciante per quasi tutti i singoli Paesi e che si appresta a varare il Ttip? O i singoli Paesi dove la politica è più a portata d’uomo? La Gran Bretagna sarà un grande laboratorio.
Al di là del risultato, che può piacere o meno, c’è un fatto incontrovertibile: nel Regno Unito hanno aperto le urne. E questo in Italia non succederà mai.
Napolitano, appena letto il risultato del Brexit, si è affrettato a dire che “è incauto proporre questo tipo di referendum”. Come a dire che far votare i cittadini è sbagliato quando c’è il rischio che la propria idea ne esca sconfitta. Per carità, gli italiani sono abituati a non recarsi alle urne, dopo tanti governi nominati senza passare dal voto. Ma c’è un motivo (costituzonale) se l’Italia non sarà mai chiamata a votare sull’uscita dall’Ue.
Il referendum vietato dalla Costituzione
Tutto ruota attorno ad un cavillo giuridico che viene dal passato. L’articolo 75 della Costituzione, infatti, vieta espressamente di svolgere un referendum che abbia come oggetto i trattati internazionali. E visto che l’ingresso nell’Europa è stato decretato proprio con un accordo tra gli Stati, la legge italiana rende vano ogni appello al voto su un ipotetico “Ital-exit”. ”
http://www.ilgiornale.it/news/politica/brexit-ecco-perch-litalia-non-voter-mai-referendum-1275571.html
Non è un cavillo giuridico purtroppo ma una vera e propria esautorazione della stessa Costituzione, scritta tra l’altro nel modo più chiaro possibile. Se i trattati internazionali non possono essere rimessi in discussione significa che essi hanno un rango più alto della stessa Costituzione. A questo punto la Costituzione cessa di essere la legge suprema del nostro paese e diventa invece un’insieme di norme subordinate ai trattati, qualunque essi siano e qualunque precetto anticostituzionale essi contengano. In mano ai cittadini, dunque, rimane solo un pugno di mosche.
Anche al tempo del referendum di Tsipras “il dado era tratto” ma l’esito fu poi l’opposto di quello che voleva il popolo greco. Senza contare i tanti referendum italiani dove chi pensava di aver vinto si ritrovò con le pive nel sacco! Ecco comunque un paio di rapide considerazioni:
– il referendum consisteva in una domanda (il Regno Unito dovrebbe rimanere un membro dell’Unione Europea oppure uscire dall’Unione Europea?) alla quale i popoli della Gran Bretagna hanno dato una risposta che assegna la vittoria alla fuoriuscita dall’UE, ma di stretta misura, e senza che l’esito determini la procedura da seguire per uscire di fatto dall’UE, cosa affidata ai politici e ai tempi non necessariamente celeri della diplomazia. Questo consente di ipotizzare uno scenario in cui, pur prendendo atto della volontà espressa ieri dal popolo britannico, si potrebbe prudentemente non assegnare un tempo certo all’uscita dall’UE, proclamare nuove elezioni, aspettare il cambiamento d’umore della gente e, dopo un po’ di tempo, tirar fuori dal cappello l’improrogabile necessità di un nuovo referendum confermativo del precedente in quanto “la situazione ormai è radicalmente mutata”. A prescindere da ciò, esiste poi una varietà di sistemi per uscire senza uscire, esattamente come prima del Brexit esistevano degli ottimi sistemi per entrare senza entrare (e l’UK lo sa perché ne ha beneficiato ampiamente!). A meno che…
– … a meno che il vero scopo del referendum non fosse quello di creare ancora più caos in Europa mediante la spaccatura tra Inghilterra e Scozia, spaccatura che, dopo il Brexit, è nella natura delle cose. La Scozia ha infatti votato per il “remain” (vogliamo rimanere nell’UE) a stragrande maggioranza. Perché gli scozzesi dovrebbero quindi uscire dall’UE quando la cosa è voluta solo dagli storicamente odiati cugini inglesi? Quanto tempo passerà prima che la Scozia proclami unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna? E come si muoveranno il Galles e l’Irlanda del Nord? E, last but not least, cosa farà la piccola Gibilterra dove più del 90% della popolazione era a favore della permanenza in Europa? E come si comporterà la Spagna che potrebbe saltare sull’occasione per diventare il fratello maggiore di Gibilterra che, poverina, rischia di perdere la mamma divenuta ormai matrigna?
Preciso che il dato numerico degli scozzesi favorevoli alla permanenza nella UE è stato “solo” del 62% ma, visto che si votava con la logica della maggioranza dei distretti elettorali e non di quella del numero dei votanti, tutti i 32 distretti elettorali scozzesi hanno scelto l’Europa e dunque si è trattato, formalmente, di un’unanimità totale.
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“..l’ex regina di Draghi”
I britannici dicono no all’Ue, non all’Europa. Sono due cose diverse che non andrebbero usate quali sinonimi.