Anna Lombroso per il Simplicissimus

Poveri noi, mi ripeto, quando sobbalza perigliosamente sulle leggendarie buche il taxi che sono stata costretta a prendere dopo una quarantina di minuti di attesa del tram numero 3 sulla Labicana infuocata  e sprovvista di pensiline forse per temprare sempre di più i romani con cimenti che mettano alla prova la loro indole guerriera.

Poveri noi, mi dico, quando sfioro i cumuli di immondizia che prosperano  accanto a monumenti e vestigia, a fronte della molto propagandata app dell’Ama, che ci mette in condizione di conoscere online e in tempo reale gli orari di prelievo della monnezza, le modalità per un conferimento corretto, secondo la pedagogia aziendale e comunale che esige dai cittadini civiltà, educazione civica, responsabilità, quelle qualità insomma che non sono obbligatorie, anzi, nei carrozzoni clientelari, nei meandri familisti e  bacini elettorali in servizio permanete per tutte le formazioni.

Poveri noi, recito sconsolata mentre contemplo gli sperperi per opere e operette inutili forse dannose, linee metropolitane condannate al ruolo di macchine moltiplicatrici di corruzione, manifesti pubblicitari a sostegno dalla candidatura olimpionica, immensi falansteri incompiuti, realizzati coi nostri quattrini secondo quella mitizzata attrattività degli investimenti “privati” nell’edilizia, che ha promosso la cementificazione e consolidato l’accumulazione opache di costruttori e immobiliaristi secondo “ripartizioni” dai contorni opachi: il pubblico e la collettività ci mettono suolo, soldi, servizi, i privati ne approfittano. E chi è senza casa può sempre occupare, nel migliore dei casi qualcuna delle migliaia di abitazioni invendute, mai finite, cadenti prima del completamento, cui altre se ne sarebbero aggiunte se non fosse stata per il momento fermata la smania costruttivista, in favore delle signorie che hanno sempre fatto il cattivo tempo in città, delle amministrazioni in odore di “continuità” col passato.

Poveri noi, e povera Raggi, cui tutti guardano con superciliosa e ipercritica concentrazione. Quella che non hanno riservato al susseguirsi di amministratori sbruffoni, incapaci, impreparati, inadeguati, circondati di cattive compagnie, proverbialmente poco dediti alla studio, perfino quello liceale, ancora meno inclini al lavoro, trascurato in favore di impieghi a tempo indeterminato in quelle  aziende di partito che negli anni non hanno appagato soltanto gli appetiti padronali, di qua e di là del Tevere, ma anche le concitate e ingorde brame sociali e di posizione di estese cerchie di simpatizzanti, affiliati, famigli. A cominciare da dinastie di giornalisti la cui dedizione alla causa dell’obiettiva informazione è stata nutrita dai salatini e i canapè dei salotti, favorita da consulenze benevole, alimentata da pettegolezzi passati sottobanco.

E infatti stamattina chi avesse voluto averne un saggio, avrebbe potuto gustarsi un ghiotto pastello sul Messaggero dei Caltagirone, quella cronachetta sull’insediamento, ricca di pennellate spietate e di tratteggi al vetriolo, perché nessuna arma è risparmiata quando si fa opposizione dura e pura, soprattutto se preventiva. Sfoderando la spada della critica a colpi di condanna per i tacchetti a spillo della Raggi, che nemmeno sulle calzature riescono a essere bipartisan, che ticchettano capricciosi e scriteriati nei corridoi del Campidoglio, a differenza delle ritmiche marcette trionfali sui pavimenti di Palazzo Chigi, di dileggio per le sue lacrime, guardate con schizzinosa incredulità da chi si è estasiato per altri pianti ministeriali, di deplorazione per quell’incauto affacciarsi alla finestra, paragonato all’esibizione al davanzale della Pascale dolente al capezzale dell’utilizzatore finale.

A dimostrazione che perfino il sessismo è doppiamente discriminatorio, che  il maschilismo non fa differenze solo tra uomini e donne, ma anche tra donne e donne, perfino tra quelle di potere e di regime, cui dedica differenti gerarchie di attenzioni, le une meritevoli di indulgenza e ammirazione, le altre di derisione e riprovazione, perché meno organiche, meno utili alla causa intersessuale di profitto e convenienza.

Pare che la Raggi non debba preoccuparsi: ha avuto frequentazioni e addestramento presso alcuni squali che dovrebbero averla formata a reagire con la supponenza un po’spocchiosa e l’arroganza un po’ tracotante che ha già dimostrato. Ha rivelato di possedere quel certo senso di intoccabile inviolabilità che contraddistingue chi sa stare a galla anche grazie al salvagente del quale è dotato chi ha avuto la fortuna di appartenere a ceti favoriti dalle estrazioni della lotterai naturale.

Non mi resta che augurarmi che l’essere stata trattata da extracomunitaria molesta, che pretende l’accesso a ruoli e posizioni superiori, da prefetto uscente e esponenti del governo, straniti che qualcuno di “forestiero” ai loro circoli non si rassegnasse a passare per tutto la vita il piumino per le ragnatele sulle cornici dei saloni degli specchi della politica, le insegni a rispettare dignità e dolore di chi aspira a qualcosa di più della sopravvivenza. Che essere entrata tra tanta  malevolenza nella “casa” pubblica, la ammaestri a impegnarsi per garantire un tetto  a chi non ce l’ha e diritti di cittadinanza anche a quelle minoranze nei cui confronti sono autorizzati razzismo e xenofobia. Che l’evidente discriminazione esercitata per il suo essere donna, la convinca che tratta di un fronte, quello delle disuguaglianza ancora così vive, nei salari, nelle professioni, in casa, nelle gerarchie patriarcali attribuite ai diritti, nel quale siamo ancora in guerra, che si faccia chiamare “sindaco” o “sindaca”.