Anna Lombroso per il Simplicissimus

Stanotte ero stranita, non mi succede di frequente che il candidato cui ho dato il mio voto, vinca, anzi, stravinca. E ancora più raramente ho provato la voluttà di vedere quei volti, fino a ieri sfrontati e tracotanti, ieri sera terrei e sofferenti, sentire quelle voci rotte per via dell’orrenda sorpresa, della minaccia rimossa ed ora terribilmente concretizzata, dall’affronto della reazione popolare. Ascoltarli mentre cercavano di rimettere insieme i pezzi di una narrazione oscenamente menzognera per propinarcela mentre scivolavamo nella fase Rem. Cercare di persuaderci che ha vinto la destra, come se loro non ne avessero raccolto l’eredità dando una mano di vernice modernizzatrice,  tentare di convincerci che hanno mantenuto il loro elettorato, battuto però dalla potenza del consenso moderato offerto ai populisti. Quando è chiaro, a guardare i dati, che è proprio il loro bacino ad aver preferito l’estensione accidiosa, il ribellismo della scheda bianca all’obbligo indesiderato di dare il voto ai candidati imposti dall’apparato, sicché ancora prima delle sue dimissioni da presidente del consiglio, dovrebbero esigere da Renzi di lasciare la segreteria del partito.

Si, è vero, non ero del tutto a mio agio, ma siccome non mi bastava una spallata al governo golpista, avevo voluto anche i calci in culo.

E quello ha motivato la mia scelta in barba alle altezzose obiezioni schifate dei duri e puri, degli antagonisti del web, degli oppositori tramite “mi piace” e aforismi del Che, quelli generalmente e per loro fortuna residenti in comuni esentati dal ballottaggio,  che mi dicevano che per punire l’odiatissimo tirannello avrei contribuito a affossare la città. Ahimè già piuttosto morta e sulla quale, vale la pena di ricordarlo, si è consumato l’accanimento di palazzinari, cementificatori, immobiliaristi, falsi mecenati, criminali noti o in clandestinità, affaristi opachi, cooperatori discutibili, amministratori sleali, controllori in vendita, clientele e dinastie corruttrici e corrotte. Una capitale che paga la sua cattiva gestione di decenni e bipartisan con il suo fallimento, con un bilancio il cui passivo si è gonfiato sempre di più: ai 13,5 miliardi certificati dal Commissario governativo, ai 2 maturati negli anni di  Marino, si aggiungono quelli   prodotti dall’accensione di titoli derivati, in ossequio locale agli obblighi dell’imperialismo finanziario e sui quali il candidato Giachetti ha pudicamente taciuto, pur essendo per familiarità e contiguità, quello più abilitato a aprire una trattative per la rinegoziazione del debito.

Roma è una città fallita economicamente e moralmente, perché alla voragine del debito non corrisponde erogazione di servizi, tutela del territorio e del paesaggio urbano, qualità di vita, mobilità, offerta di cultura, assistenza, accoglienza.

È stata il laboratorio di una ideologia e di un sistema di governo nel quale sperimentare la mercatizzazione e commercializzazione del Paese,  dove effettuare un test di quella volontà di  mettere a valore ogni bene, compresa la democrazia, trasferendo   l’esercizio del governo della cosa pubblica dallo stato al mercato, in modo che eserciti il suo potere assoluto sulle nostre vite, sulle proprietà collettive, sulle aspirazioni, sulle garanzie e sui diritti, promuovendo la rendita, favorendo la speculazione, nutrendo un’illegalità paradossale, attraverso leggi e  disposizioni inique, esautorando la rete dei controlli e l’accesso dei cittadini alle informazioni, irridendo le competenze dei soggetti incaricati di vigilanza e tutela. E intanto la collettività era a un tempo oppressa dal debito generale e personale, oltraggiata dall’esibizione dei dislivelli sociali, marchesi de grillo da un lato e noi, marmaglia sempre scontenta, cornuta a mazziata,  dall’altra, derisa dalla stampa a libro paga del regime pronta a cavalcare i più cialtroni degli stereotipi su una cittadinanza indifferente e imbrogliona, indolente e sfaticata, disincantata e gaglioffa, che non è all’altezza della bellezza che la circonda. Mentre invece si merita bus come al Cairo, malaffare perfino al cimitero, corruzione diffusa, profitti aberranti sui disgraziati, graduatorie per case e sussidi manomesse a truccate, circolazione autorizzata di mazzette per ottenere elementari diritti, aziende disastrate strutturate per fornire consensi, sistemare famigli, permettere il commercio di voti e favori, mentre in alto si genera consumo di suolo, soldi, qualità, speranza, ambiente e cultura, alimentando le crisi in modo che diventino provvidenziali emergenze dalle quali trarre fruttuosi profitti tramite misure e poteri eccezionali e ripristinare quel regime di deroghe che fa la fortuna di una urbanistica e di un’edilizia senza regole, senza programmazione, senza senso, se non quello dell’avidità e dell’accumulazione.

Per quanto mi riguarda continuerò come al solito a fare le pulci, residua libertà che ci resta, insieme all’istinto a dire No, senza mai interrompere quell’azione che un tempo si chiamava vigilanza democratica. Ma la  “loro” batosta è consolatoria e incoraggiante, soprattutto per chi, da marginale volontario a potere, regimi, maggioranze, cerchie opache, per scelta, perlopiù scomoda ma almeno volontaria,  è stato via via condannato all’esclusione da servizi che ha pagato, garanzie che ha conquistato, remunerazioni che ha anticipato, diritti che ha espugnato, libertà che gli sono state date in prestito e che vuole mantenere, curare, trasmettere.