Anna Lombroso per il Simplicissimus
Giorni fa ho avuto la fortuna di “incontrare” e di riconoscermi, ancora una volta, nel pensiero di Agnes Heller, filosofa ungherese, allieva di Lukács» sfuggita alla Shoah e a purghe successive (era stata espulsa nel 1959 dall’Università di Budapest), emigrata in Australia nel 1977, dove insegna sociologia a Melbourne, arriva poi a New York e occupa la prestigiosa cattedra di Hannah Arendt, ora tornata a vivere in Ungheria dove è determinata con giovanile esuberanza a ricoprire la funzione di molesta e importuna presenza critica del regime.
Mi ha confortato leggerla, perché solleva il problema dell’eclisse dell’utopia, immaginando però che in questa assenza risieda qualche vantaggio, che potrebbe consolarci delle feroci disillusioni, assolverci per la colpa di aver dismesso sogni e radiose visioni, lenire le ferite inferte dalla caduta delle speranze riposte nell’arcobaleno che doveva segnare la fine delle tempeste del secolo breve, delle ideologie che avevano prodotto l’orrore nazista e fascista.
Oggi che nuovi fascismi, nuovi autoritarismi, nuove persecuzioni, nuove disuguaglianze non “ci permettono la soddisfazione dei nostri desideri, però da qualche parte e in qualche modo possiamo immaginare la società giusta”, dice Heller ricordandoci che siamo ancora in possesso del diritto inalienabile di contribuire a “coltivare il giardino in cui viviamo con responsabilità, attenzione e cura”, scegliendoci, noi, un futuro migliore, grazie alla nuova conoscenza che possediamo di quello che ci circonda, dei suoi rischi: quello nucleare, ma anche gli attentati alla sovranità dei popoli in nome di un nuovo imperialismo, quello finanziario non meno cruento di quello antico, quello autoritario, ma anche quello della invasione mediatica e comunicativa al servizio di modelli di consumo che orientano desideri e decisioni esistenziali e pubbliche, totalitarismi, ma anche la tentazione di isolarsi in un privato egoico, solipsistico, accidioso e amaro.
Si tratta di una raccomandazione a continuare a pensare “grande” e a agire anche “piccolo”, non a ridurre la speranza, la decisione, la ragione, ma a applicarle nella nostra vita. Non a dare le dimissioni dall’utopia ma disegnarla e farne una meta da raggiungere con una volontà e un percorso impervi ma indomabili. Credo abbia ragione: restare aggrappati ai nostri sogni, quelli di cambiare il mondo rovesciando i modelli di sviluppo, liberandoci magicamente da oppressione e sfruttamento, abbattendo i totem del mercato, dell’accumulazione, è servito da alibi per l’inazione e la militanza nella scontentezza, nella delusione, nell’estraneità.
Abbiamo scelto in troppi di contemplare i nostri cieli e le nostre nuvole sotto il susino, mentre restavano saldi al potere gli stessi monarchi, davano ordini ai soliti generali, vincevano la lotta di classe, alla rovescia, capaci come sono di unirsi in tutto il mondo e forse anche su Marte da dove non arriva nessuno a salvarci.
Non basta riferirsi alle altrettanto salde stelle polari, quelle dei nostri diritti e dei nostri doveri parimenti esercitati per conseguire libertà, uguaglianza e solidarietà. Ma di questi tempi e da noi è già qualcosa, per contrastare i quotidiani attentati al benessere, all’armonia sociale, alla felicità. Quelli miserabili nei quali sono maestri i giovinastri che impongono a chi vuole godere dei contributi versati per garantirsi una età matura appagante e serena di indebitarsi con gli istituti finanziari, quelli feroci di chi ha talmente manomesso l’assistenza da farci morire in gran numero e prima dello statisticamente prevedibile. Quelli infami che dispiegano riforme per restringere sempre di più la più elevata espressione della cittadinanza, e quelli cialtroni che salvano per legge marioli dei vertici bancari. Quelli grandiosamente ignobili che predicano e attuano rifiuto, speculazione sulla disperazione, e quelli vergognosi che mobilitano le nostre risorse per lasciare impronte faraoniche, megalomani, capaci di generare malaffare, corruzione e dissipazione di risorse e territorio.
I responsabili di quei delitti ogni giorno ci mettono davanti all’impossibilità di sapere e di scegliere, se non loro. È il primo diritto che dobbiamo riprenderci quello di dirgli di no, ogni giorno, in ogni voto, in ogni decisione ed occasione.
Secondo la Heller l’unico paese dove esiste una vera integrazione del diverso, a differenza dell’Europa che impone l’assimilazione, sono gli USA, l’unica nazione scevra da tentazioni ‘bonapartiste’ (uomo forte) nei momenti di difficoltà. Questo blog é piuttosto critico, anche a ragione, del modello americano, e avendo appena asserito la vostra ammirazione per la filosofa ungherese, come spiega questa differenza di vedute?
anche Hannah Arendt, arrivata in America dopo la fuga dalla Germania nazista, era stata ammaliata dal sogno democratico americano alla Tocqueville, pur avendo provato sulla sua pelle repressione, limitazione della libertà d’espressione. Succede a chi confronta modelli totalitari, creando delle gerarchie e anche a chi, pur illuminato, vede la democrazia più come sistema di amministrazione della cosa pubblica ed elettorale che come edificio di valori. Ma questo francamente nulla toglie a molte delle felici intuizioni della Heller per quanto riguarda la teoria dei bisogni, la critica alle caste intellettuali, corrotte dal feticismo del pragmatismo, per il suo contributo al pensiero femminista e oggi la sua continua denuncia del prevalere di regimi neonazisti. Credo che dovremmo essere davvero laici, non cedere a pregiudizi manichei, nè nel bene né nel male. E nemmeno farsi tentare da un eccesso di semplicismo, quello che proprio nel caso in oggetto, porta tanti a preferire Clinton a Trump, perché pare meno dannoso il primo rispetto al piccolo napoleone in parrucchino.. E il sistema americano, quello elettorale e quello di controllo, ben lungo dall’essere buono, potrebbe essere meno permeabile all’autoritarismo e al leaderismo del nostro, come rivela quello che abbiamo intorno.. grazie della lettura attenta, Anna Lombroso