fassino-11Già alla chiusura delle urne avevo ipotizzato che il risultato delle elezioni comunali cambiava la prognosi del Pd , facendone un malato terminale dopo la cura di Renzi che intende superarlo in favore di un ambiguo partito della nazione dove raccogliere il centro e la destra. Ma l’analisi più approfondita del voto porta alle stesse conclusioni e Torino una delle roccaforti del partito,una delle città dove ha tenuto di più, conferma appieno questa diagnosi, sia dal punto di vista numerico che politico. Intanto perde, sia pure di poco,  lo status di primo partito che con il  29,96 passa ai cinque stelle, ma questo sarebbe il meno e in ogni caso non sarebbe un ostacolo insormontabile per una vecchia volpe come Fassino che è riuscito a passare da comunista a uomo di Marchionne con straordinaria nonchalance, quasi la stessa con cui si è laureato a 50 anni essendo ministro in carica. Il fatto di aver perso 95 mila voti come candidato sindaco, al confronto dei 32 mila lasciati per strada dal Pd non lo spaventano di certo.

Il fatto significativo è che il Pd crolla nelle periferie operaie e tiene invece nei quartieri centrali e ricchi, gli unici peraltro dove è riuscito a superare, sia pure di poco i 5 stelle, cominciando invece ad arretrare non appena si entra nelle zone dove l’impoverimento si comincia a sentire e dimezzando nelle periferie già aggredite dalla povertà. Di certo il crollo sarebbe stato più clamoroso se non ci fosse stato un trapianto di voti dal cadavere del berlusconismo, come del resto nei sogni del quizzaro raccomandato Renzi. Ancora più significativo è che che la stessa cosa sia  avvenuta anche a sinistra del  Pd, segno di una posizione che ormai non fa più presa fuori dai salotti e persino nell’ambito  alla destra più estrema.

In poche parole a Torino si profila chiaramente una crisi non solo del partito democratico, ma anche di tutto l’arco della politica tradizionale, rendendo così più arduo e via via più anacronistico il disegno renziano di compensare eventuali perdite a sinistra rimpolpando il partito della nazione con i resti del berlusconismo. Anzi quelle stesse perdite a sinistra, timide, fuori tempo massimo, spesso ambigue, sempre adescate dallo statu quo,  non sono più convincenti e vengono via via abbandonate dal loro popolo.  Non accade solo a Torino e di certo non solo in Italia: dappertutto una sinistra che non è più tale nemmeno a pregare in turcomanno, anzi è spesso la portatrice subdola del verbo liberista e dei suoi strumenti, è  ormai in crisi irreversibile. Si cerca a tentoni altro e magari in quella ricerca si può finire nel buco nero di Trump, del Front national, di Salvini o di Farrage, oppure nelle bizzarre agorà di Sanders, di Podemos, dei Cinque stelle o di Corbyn. Difficile anzi impossibile trovare un qualche legame ideologico o di pensiero tra tutto questo se non appunto il rifiuto dello status quo che ormai molti hanno capito dove vuole andare a parare.

Renzi minimizza, legge con sguaiata diligenza i comunicati stampa dei suoi dottori di immagine, ma in realtà ha ormai un’unica speranza che condivide con la classe dirigente e i suoi clientes: quella di mandare in porto il referendum costituzionale e la legge elettorale per poter permettere ai gruppi di potere di rimanere in sella nonostante questa situazione e il rifiuto crescente della popolazione. E li che si gioca tutto e non è un caso che la sua preoccupazione maggiore in questi giorni sia stata quella di scollegare il risultato delle elezioni comunali dalla consultazione popolare. In realtà parlandone e insistendo con quella sua tipica ottusità brillante, non ha fatto altro che evidenziare il legame che lega i due appuntamenti: la lingua batte dove il dente  duole e lui, assieme all’ammucchiata dei diligenti informatori e commentatori, comincia ad avere paura.