arton30462-e2672Leggendo i giornali e guardando le televisioni sia in vista delle amministrative di oggi, ma soprattutto del referendum costituzionale, osservando il modo elusivo e ipocrita con cui l’informazione accredita la presentazione truffaldina delle cifre (vedi quelle sul lavoro) o tira la volata alle illusioni di ripresa, mentre bacchetta ogni idea alternativa, ogni protesta, qualsiasi eresia rispetto al pensiero unico, è difficile  non andare col pensiero all’America Latina dove è stato proprio il sistema mediatico a costituire il terreno di resistenza e poi di rilancio per le destre “amerikane” dopo il discredito in cui sono cadute le dittature militari  e l’ambiente economico parassitario e/o coloniale ad esse afferente.

Sebbene le vicende italiane siano diversissime da quelle sud americane, il fatto che il sistema mediatico sia stato per molti anni e continui ad esserlo tema di un incredibile conflitto di interesse, che sia divenuto in qualche modo consustanziale alla politica, cane da guardia del potere e non dei cittadini, che la televisione pubblica sia divenuta fino al ridicolo quella del governo e del sottogoverno, ha prodotto inattese  similitudini, rese ancor più evidenti negli ultimi anni con l’ingresso massiccio dell’informazione made in Usa, sia grazie alle preordinate invasioni del gruppo Murdoch e della Fox o dovute alla conquista interna della grande stampa della borghesia del nord Stampa e Corriere grazie all’operazione Chrysler Fiat che di fatto ha trasferito il gruppo in Nordamerica. Così non solo abbiamo una informazione e comunicazione vicina al potere per ovvi motivi come nel resto d’Europa, ma anche una che fa direttamente riferimento come in Sud America all’universo gringo. La malattia sembra meno acuta, ma non per questo priva di caratteri sistemici con tutti i sintomi della svendita e dell’autoreferenzialità.

In Venezuela parecchi media , Globovision, Televen e Venevision, ma soprattutto RCTV, una televisione fondata negli anni ’50 da un americano, avevano plaudito nel 2002 al rapimento di Chavez e al colpo di stato di Pedro Carmona evidentemente preparato e pensato altrove, ma realizzata grazie all’appoggio del sistema mediatico. Il golpe fallì per l’azione decisa dei sei milioni persone scese in piazza, però nel 2007 quando nell’ambito del rinnovo della concessione delle frequenze, RCTV fu esclusa e costretta a trasmettere esclusivamente via cavo e via satellite, vennero organizzate proteste di piazza in difesa della libertà di espressione. Il che non può ricordarci le proteste e le minacce di scatenare la piazza per la libertà ogni qualvolta per le tv di padron Berlusconi si profilava il pericolo di essere esaminate sotto il profilo del conflitto di interessi. Cosa che poi non è mai accaduta per il palese accordo tra le forze politiche.

I proprietari dei media sudamericana non si fanno certo scrupoli etici  nello spingere i propri giornali o le proprie televisioni ad offendere e calunniare le massime cariche dello stato se serve la causa del golpe come fece in Equador El Universal nei confronti del presidente Correa durante il tentativo di colpo di stato nel 2009. E quando successivamente Correa ricorse al tribunale contro il quotidiano ci fu subito una campagna per accusarlo di attentare alla libertà che ebbe qualche seguito anche in Europa, in Francia e in Italia evidentemente per inespressa fratellanza di idee editoriali. In Argentina i quotidiani Clarins e la Naciòn, hanno condotto una continua campagna senza esclusione di colpi contro Néstor Kirchner et Cristina Fernández e quando essi hanno presentato una legge per il riordino della comunicazione audiovisuale prevedendo una vera pluralità d’informazione, hanno pensato bene di accusare la Fernandez di essere mandante dell’assassinio del giudice Nisman, senza uno straccio di prova. Secondo la stampa il magistrato si apprestava ad accusare Cristina Fernandez de Kirchner  di aver coperto, insieme al ministro degli Esteri Héctor Timerman, cinque iraniani ritenuti colpevoli dell’attentato contro l’Asociación Mutual Israelita Argentina (Amia) del 18 luglio 1994 che causò la morte di 85 persone e il ferimento di oltre 300.

Questo per favorire gli scambi petroliferi con l’Iran. Solo dopo, quando ormai la posizione della Kirchner era compromessa è venuto fuori che le cose erano andate ben diversamente: a cominciare dal fatto che l’attentato era avvenuto in piena presidenza del filo americano Menem il quale la terrà  per oltre cinque anni dopo la vicenda senza fare assolutamente nulla, poi che il giudice Nisman era amico stretto del direttore dei servizi segreti Antonio Stiuso e che era stato proprio quest’ultimo a sollecitare il magistrato perché tornasse anticipatamente dalle vacanze in Europa e mettesse sotto accusa la presidenta. Insomma una trappola ben architettata grazie anche ai molti Betulla presenti nella stampa del Paese e che è finita nel discredito troppo tardi quando anche alcuni cablogrammi “rubati” di Wikileaks hanno evidenziano la collaborazione di Nisman con gli Stati Uniti affinché l’Iran fosse indicato come il principale responsabile dell’attentato, scartando altre piste più plausibili. Ma nessuno si è mai occupato di prendere in considerazione la richiesta dei familiari delle vittime dell’Amia, che più volte hanno sollecitato la nascita di un’agenzia indipendente.

E vogliamo parlare del proprietario del quotidiano cileno El Mercurio, Agustin Edwards che nel 1970, pochi giorni dopo l’elezione di Allende si recò espressamente negli Stati Uniti per chiedere a Kissinger di fare tutto il possibile per eliminare il nuovo presidente? Il fatto è che il prode Augustin, sebbene contestato è ancora padrone de El Mercurio e insieme ad esso del 50% dell’informazione cilena mentre l’altra metà è detenuta da Copesa una società impegnata anche nella finanza e nella speculazione edilizia, che collabora guarda caso con il gruppo argentino Clarin, con il brasiliano O Globo di cui parleremo tra poco, con il Wall street Journal, con Condè Nast e dulcis in fundo con tutta la cintura di ferro a stampa che l’impero ha creato a sud della Cina da Hong Kong a Singapore. Ci possiamo stupire se il gruppo Copesa abbia iniziato una campagna di destabilizzazione, accusando di corruzione la presidente Michelle Bachelet? Anche se ha dovuto ritirare le accuse per la loro palese inconsistenza e chiedere scusa il gruppo si è detto vittima di un tentativo di limitare la libertà di stampa e ha promesso di ricorrere a tutte le istanze internazionali per opporsi. A che cosa, alle accuse fasulle?

Si parlava del Globo, ed eccolo, lupus in fabula, il principale quotidiano brasiliano sulle cui pagine è stata interamente sviluppata, per non dire creata la vicenda che ha portato all’impeachment di Dilma Roussef e che ha posto al centro della sua ragione di vita la rivoluzione arancione destinata a riportare la destra al potere. Tutte queste vicende di informazione e filosofie dì azione hanno un comun denominatore: quello di ignorare i temi politici, di mentire sugli obiettivi  reazionari e coloniali, per concentrarsi sulla corruzione vera o presunta dei governanti democraticamente eletti  da maggioranze contrarie alle ingerenze Usa e alle speranze reazionarie della media borghesia del continente. Secondo una tattica ormai codificata e consolidata in varie parti del mondo si cerca di appropriarsi dei favori popolari non con prospettive politiche che sarebbero peraltro inconfessabili, ma con la simulazione etico morale.

Qualcosa che conosciamo bene anche noi per aver vissuto una sorta di rivoluzione arancione di palazzo da Monti in poi. Anzi già a partire dal terzo Berlusconi  riemerso al potere grazie alle note campagne sulla casta  che hanno prodotto non un cambio di rotta ma alla fine un tentativo di manipolazione costituzionale ed elettorale per rendere intoccabile proprio il ceto politico sotto accusa. Un esito scontato visto che queste resipiscenze morali a mezzo stampa non si sono mai esercitate a vedere la corruzione come un portato del sistema, ma come un semplice deviazione del sistema, eludendo il discorso di fondo, ovvero che la mentalità collusiva deriva dalla sempre maggiore mancanza di rappresentatività  e dunque di democrazia reale.