Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte prende un tale sconforto, un amaro senso di inutilità e impotenza di fronte al fiume inarrestabile di stereotipi, banalità, luoghi comuni somministrati e assunti come la cura contro qualsiasi forma di assunzione di responsabilità, prima tra tutte quella di tutelare, noi, dignità, diritti, libertà.

Da due giorni si sono assunti il ruolo di fustigatori dell’accidia e dell’indifferenza quelli che hanno contribuito in maggior misura a annientare le poche difese che avevamo per contrastare diffidenza, inimicizia, ferocia, caratteri comuni agli uomini lupi gli uni con gli altri senza nemmeno più l’istinto a viere in branco, se non per esercitare violenze di gruppo: imprese belliche o stupri che siano.

Non parlo soltanto di chi ha scaraventato le donne nella condizione di subalternità che credevamo di aver superato, in stati di marginalità, fuori dal lavoro, riportate nostro malgrado in casa a sostituire un welfare che non c’è più, costrette a un ritorno alla clandestinità, se perfino il più amaro dei diritti è nuovamente retrocesso a colpa e reato in nome della coscienza di chi rispetta la legge del mercato, penalizzate due volte, per via di salari disuguali, quando ci sono, di progressioni di carriera disuguali, di disoccupazioni disuguali, se spesso si è costrette a sceglierle in favore del posto dell’uomo.

La lotta di classe alla rovescia, coi padroni di tutto il mondo uniti, ha gioco facile nel suscitare e nutrire altre differenze, altre iniquità, in modo da dividere ancora di più il frastagliato fronte della “cittadinanza”, così la combinazione di cultura patriarcale e ideologie ispirate da profitto, sfruttamento, accumulazione con una crisi, la cui portata è alimentata per legittimare autoritarismo, dispotismo, ricatto e intimidazione, favorisce il ricollocamento delle donne – salvo eccezioni selezionate tra cattive imitazioni dell’idealtipo del bullo, maschilista, represso e oppressore,  tracotante e squalo – nelle geografie minoritarie degli individui di serie B, soggette per codice genetico, destino biologico, vocazione a subire, a ubbidire, a tollerare, condannate a dipendenza e subordinazione – salvo saperne approfittare con antica furbizia, impiegando la debolezza e remissività come armi di arcaica seduzione.

C’è poco da stupirsi se in un mondo dove tutto e tutti sono oggetto di ricatto, scambio, riduzione a merce, le donne lo sono due volte, fuori e in casa, nelle relazioni pubbliche e in quelle personali, sicché viene visto come infantile ribellione, come pretestuosa e ingiusta rivendicazione di innaturale autonomia, il rifiuto a concedersi, il suo no, secondo una generalizzata deplorazione che il potere estende ormai a ogni manifestazione critica, femminile o maschile che sia. È così che si diffonde come un veleno l’indulgenza per comportamenti criminali di maschi che si sentono uomini e superuomini solo grazie alla sopraffazione, la bonaria clemenza per misfatti e delitti promossi a comprensibili reazioni alla perdita, al tradimento, tanto che esiste una gamma di assassinii che non conosce ergastolo, che gode di attenuanti eccezionali e riduzioni di pena speciali, assimilabili all’antico istituto del “delitto d’onore” in modo da onorare appunto e celebrare la riduzione della donna a proprietà privata, ad uso e consumo del suo uomo.

Voglio parlare in questo caso però, dell’informazione, ufficiale e virtuale, che si è accanita contro la gleba urbana indifferente, che davanti alle richieste di aiuto di una ragazza inermi, ha fatto finta di non vedere, non sentire, non sapere, non accorgersi, non voler partecipare e reagire a una prevaricazione, senso comune ormai, che, duole dirlo, caratterizza il nostro comportamento privato e pubblico. Avrebbero ragione gli autorevoli organi di stampa, le trasmissioni della tv del dolore, i talk show che campano di retroscena, umori, secrezioni, borborigmi, mal di pancia e allergie.

Avrebbero ragione se non dovessimo anche a loro il successo incondizionato, il trionfo inarrestabile della diffidenza, dell’inimicizia, del sospetto, per cui anche una ragazzina che strilla impaurita potrebbe nascondere un’insidia, per cui è meglio farsi gli affari propri al suo cospetto come davanti a chi corrompe, intimidisce, ricatta, esercita violenza e sopraffazione, per cui non si denuncia, si usa il cellulare per un selfie, istituto promosso a azione di governo, ma non per chiamare i carabinieri, per cui ci si persuade che quella fuga disperata e inutile potrebbe essere la performance della protagonista di un reality, come è normale in queste nostre esistenze così malvissute da farci preferire realtà parallele e artificiali.

Avrebbero ragione se non si fossero messi al servizio di quelle imprese della paura che la impiegano nel lavoro, con la precarietà, nella società, nutrendo l’invidia in modo da ridurre la portata rivoluzionaria della legittima collera, nel mondo, con la paura dell’altro, estraneo e dunque pericoloso. Avrebbero ragione se non avessero contribuito a insinuare in noi, nati nelle geografie delle certezze, del privilegio, del comfort, nuovi e antichi timori, della diversità, della malattia, della povertà, della perdita di beni e sicurezze, di catastrofi che piovono dal cielo o provocate da disperazioni nelle quali non ci vogliamo rispecchiare. O indotte da un male che abbiamo dentro, un veleno che siamo restii a riconoscere e ammettere.