Anna Lombroso per il Simplicissimus

Che magnifica festa era il 25 aprile di una volta. A Venezia poi era la festa del risveglio dall’inverno dello scontento, della primavera, anche per il coincidere con la celebrazione del patrono e con il rito del “bocolo”,  il bocciolo di rosa che ogni uomo è tenuto a donare alla sua compagna, pena musi lunghi e rinfacci, in un  tripudio di liturgie sacre a festeggiare insieme un santo amato, anche per via dell’avventuroso trafugamento della salma ad opera di astuti mercanti veneziani che ne fa un protettore della libera iniziativa, e  quelle ancora più  sacre a celebrare la libertà conquistata.

A casa mia nei giorni precedenti regnava una certa inquietudine: mio padre, partigiano coraggioso fino alla spericolatezza, rivelava una incomprensibile apprensione e una timidezza invincibile all’idea di parlare in pubblico, così vergava con quella sua elegante grafia regolare decine di foglietti di appunti per prepararsi a comizi e commemorazioni.  Poi, invece, magicamente, la mattina del 25 tornava il sereno, insieme a un immancabile gran sole carico d’amore. Nell’oblio del bocolo, cui mia madre laicamente guardava con indulgenza, si officiava invece  la cerimonia della memoria per ricordare come in quella  notte prima della festa liberatoria, non si era –  e per sempre – “sciolto” il fascismo come neve al sole, che le  teste del duce e i fasci abbattuti,  la sparizione definitiva di medaglie e attestati, fez, labari e gagliardetti, prudentemente nascosti il 25 luglio ’43,  e i morti e i feriti e gli storpi e le umiliazioni e le stragi e la sommatoria di milioni di azioni private all’insegna dell’infami e del disonore non sarebbero bastati a cancellare la vergogna  e a garantire che l’orrore non di ripetesse.

Andavamo ad ascoltarlo mio papà in piazze di paesi circondate di case che via via si alzavano di qualche piano, arricchendosi di vetrine piene di merci di lusso, in province sempre più pingui, piazze che con il passar degli anni si facevano sempre meno piene, in cinema che nel tempo erano sempre più vuoti di gente e invece popolati di comparse delle istituzioni, prima dell’immancabile proiezione di “Achtung Banditen” e dopo i pistolotti dei potenti locali sulla necessità di una benefica riconciliazione, quella ancora ieri, 24 aprile 2016 riproposta con sicumera da Violante e intesa a rendere tutti uguali, carnefici e vittime, ragazzi di Salò e fratelli Cervi, partigiani e marò in missione di vigilanza a interessi commerciali opachi. Dimenticava in tasca i foglietti scritti nei giorni precedenti e parlava a braccio mio padre, trascinato dalla furia di sottrarsi alla retorica della liberazione dall’invasore, per ribadire che non c’era solo quello nella testa, nelle visioni, nel coraggio dei ribelli, dei banditen in montagna, che c’era l’utopia da realizzare di un modo altro di vivere col rispetto di se stessi e della propria dignità di uomini e cittadini, che si realizzava, senza pudore di dirlo, con la lotta di classe, contro profitto, avidità e sfruttamento delle persone e del lavoro, contro le disuguaglianze, contro la collusione di regimi e padroni concordi e coesi in un comune progetto di incremento di ricchezze e sopraffazione, di egemonia e accumulazione, comunque la si chiamasse quell’utopia, socialismo, comunismo, sovranità di popolo.

Se ricordo bene lo applaudivano con entusiasmo e foga.

Dev’essere perché si trattava del trasporto e dell’ardore di un giorno, che permetteva poi di tornare senza rimorsi al minimo garantito di una democrazia procedurale, che assicurava  il suffragio universale, il principio di maggioranza e la competizione tra forze politiche diverse, ma non il lavoro, l’equità, i diritti, le libertà, la giustizia uguale per tutti,  e di professare un “antifascismo” di facciata, quello che fa oggetto di riprovazione chi rapina una banca e non chi la fonda e gestisce per interessi di pochi ai danni di molti, quello che considera non temibili Casa Pound, la Meloni, le ruspe, le felpe,   la xenofobia di stato, i muri, le panchine riservate. O che accetta di buon grado l’uso che ne fa  l’imperialismo e i suoi guardiani europei come strumento di consenso per legittimare un colonialismo “economico e guerre condotte in difesa della civiltà, custodito dalla Nato, dai trattati di “collaborazione”, Ttip in testa, dai capestri comunitari, mentre spazzola la pelliccia delle moderne belve fasciste in Ucraina, in Ungheria, mentre gira la calce che serve pera alzare i muri, creando lager contemporanei fisici o astratti, grazie al razzismo amministrativo.

La nostalgia che sento per quella festa è il segno evidente che oggi il 25 aprile è un giorno di rimorso, di rimpianto e di dolore, per il tradimento, l’impotenza, l’onta per la slealtà con la quale si è permesso che tutto tornasse com’era e come non avrebbe più dovuto essere: la corruzione e le commistioni oscene tra padronato e politica, tra interesse privato e chi dovrebbe salvaguardare il bene comune, alienato e svenduto, e dire che a causa di ciò venne massacrato Matteotti, il prepotere della banche, proprio come ai tempi dello scandalo della Banca Romana, e l’abietto sistema di protezione tramite leggi, scambio di favori, reciproca infiltrazione nei vertici e nell’esecutivo, sacco del territorio e indole faraonica a grandi opere, inutili, costose, mirate a lasciare un’impronta di regime, ma soprattutto a generare malaffare e speculazione, accorpamento di partiti e sindacati in organismi “unici”, per soffocare critica e opposizione, restrizioni della libertà di stampa, con la promozione di monoliti di servizio incaricati della propaganda, cancellazione dei diritti e delle garanzie dei lavoratori, emarginazione delle donne e persecuzione di chi deve nascondere inclinazioni personali non “convenzionali”, provvedimenti ad personam per favorire l’egemonia indiscussa di un’oligarchia, espropriazione delle prerogative della cittadinanza e della partecipazione, privatizzazione delle proprietà collettive e dei sistemi di vigilanza e controllo. Modernamente possiamo aggiungere il simbolico abbattimento dell’edificio costituzionale, mai davvero eretto e sempre pericolante, e arcaicamente assistiamo alla ripresa dell’istituto di successo bonapartista del plebiscito, usato come strumento ricattatorio di propaganda dell’improbabile tirannello.

In tanti a un certo punto della loro vita si sono resi probabilmente colpevoli di aver professato un antifascismo esistenziale, che ha segnato le loro scelte, le loro convinzioni, i loro amori, ma che lo ha condotti ad appartarsi, a soffrire l’impotenza a combattere con le armi di un tempo, per età, disillusione, marginalità, per l’incapacità di tradurre la lotta “contro” in lotta “per”. Guardo alla loro fragilità con tenerezza, ma senza indulgenza, guardo ai tanti di oggi con collera, perché hanno permesso che questo  non sia più un giorno di festa, nel quale si celebra l’impegno fondativo e quotidiano per una società di liberi, di uguali, di solidali, perché l’Italia «nata dalla Resi­stenza» non affon­di nel Canale di Sici­lia insieme ai corpi delle cen­ti­naia e cen­ti­naia di donne, uomini e bam­bini in fuga dalla guerra e dalla fame, perché vogliamo salvare quella democrazia «nata dalla Resi­stenza»  che ogni giorno perde qualcosa di prezioso per via di poteri che la vogliono ridurre  a contesto formale della loro affermazione, perché è orribile vivere nella vergogna del tradimento, dell’accettazione del destino ad essere sottomessi quanto è difficile ma bello conquistare, vivere, conservare la libertà