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“Aiutiamoli a casa loro” è l’immancabile motto di quelli che non sono razzisti ma… Però non appena se ne presenta l’occasione, per esempio di quella di comprare da Paesi poveri e gravati da problemi che possono esplodere sulle nostre coste, ecco che si fanno le barricate e la solidarietà pelosa va a farsi benedire. La vicenda dell’olio tunisino è esemplare in questo senso e non  solo in questo, ma anche in quello della distorta percezione di realtà nel quale viviamo, delle bugie e degli inganni a fini commerciali ai quali siamo sottoposti. E’  bastato che l’Europa desse via libera, come misura di emergenza, all’importazione di 35  mila tonnellate di olio di oliva da Tunisi , oltre al quantitativo annuale di cira 56 mila tonnellate, per scatenare un paradossale putiferio.

Dico paradossale  perché la realtà è che l’Italia con circa sei alberi d’ulivo per abitante  è a malapena in grado di soddisfare la metà della domanda interna di olio di qualità, il resto viene necessariamente da altrove, Spagna, Grecia e Nordafrica, anche se le lobby  dell’industria alimentare cercano in tutti i modi di occultare e / o edulcorare questa realtà per ottenere profitti su un prodotto che da noi per tradizione, territorio, orografia, frazionamento proprietario, è costoso. In realtà il rapporto consumi – importazione è stato alterato negli ultimi trent’anni  proprio dalle stesse lobby alimentari  con le loro schiere di nutrizionisti a cachet e cuocastri ciuchi impegnati a inventarsi cazzate con sali e pepi esotici oltreché , con prodotti “tipici” altisonanti per i quali occorrerebbe un territorio cento volte maggiore e via dicendo.

Così da una parte si è imposta all’opinione pubblica l’uso improprio dell’olio extravergine per usi del tutto inadatti sotto ogni punto di vista, quali quello della frittura, asserendo che l’olio evo sarebbe quello con il maggior punto di fumo, mentre non solo non è vero, ma i diversi tipi di olio di oliva raggiungono tale punto a temperature notevolmente differenti fra loro, creando perciò un buco nero informativo. Intanto però i consumi sono schizzati alle stelle aumentati ancora di più  dalla fama taumaturgica che nel frattempo è stata costruita attorno all’olio vergine. Questa mitizzazione spinge a credere che il consumo di evo sia comunque buono e sempre sano, anzi in grado di “risanare” anche gli altri altri alimenti, secondo un tipico collegamento magico e dunque vada usato il più possibile e senza parsimonia o addirittura aggiunto ad altri grassi considerati meno sani per “nobilitarli”.  Naturalmente non è così: intanto esso è in assoluto l’alimento con il maggior numero di calorie per unità di peso e contiene una certa quantità di grassi saturi (16% in media) per cui coloro che hanno  problemi genetici di colesterolo, cioè quasi tutti quelli che hanno valori molto alti, dovrebbero usarlo con molta circospezione e magari preferire oli come quello di arachidi o mais. Il mito giunge a far ritenere più sano un dolce fatto  con l’olio evo  non tenendo conto che il tradizionale burro ha il 20% di calorie in meno e che dopo i 160 gradi gli olii di oliva più leggeri cominciano a produrre acroleina.

Ma è difficile recidere questa fama di santità acquisita a forza tanto più che effettivamente l’olio di oliva usato a crudo o nei soffritti o in molte preparazioni della cucina italiana e mediterranea è assolutamente insuperabile. Ma questi usi tradizionali (ricordo che anche nel Sud d’Italia et pour cause, si friggeva principalmente nello strutto non nell’olio) uniti all’aura insensata che ha acquisito nel mondo a cavallo tra scienza ( in via di riconsiderare se non ribaltare le concezioni alimentari di appena vent’anni fa) , chiacchiera e speculazione commerciale del mangiar sano, ne hanno aumentato a dismisura il consumo, addirittura di quasi dieci volte dal 1980. Così prima si stimola il consumo, poi lo si copre con produzioni esterne a basso costo, spesso celate agli occhi del consumatore e infine si arriva a massificare la produzione stessa approfittando del fatto che gli olivicoltori in quanto tali sono vittime dell’industria alimentari al pari dei consumatori. Ma ormai in una logica che non lascia scampo.

Sono gran brutte notizie perché proprio la varietà che il territorio italiano conferisce ai suoi diversissimi oli di oliva, dovrebbe far puntare tutto sulla qualità, specie nel momento in cui questo tipo di olio comincia ad essere prodotto anche al di fuori dal mediterraneo. Invece si è costretti a puntare sulla quantità rischiando di perdere il vero vantaggio dello stivale che dovrebbe produrre oli di eccellenza e non cocktail di incerta origine che sono stati fra l’altro tema di un inquietante studio dell’Università di California che ha pizzicato alcune famose marche italiane a vendere olio che è extravergine solo accendendo ceri alla Madonna. Del resto se l’olio di oliva fosse usato in modo corretto ci sarebbe ampio spazio per l’esportazione con alto valore aggiunto. Invece frastornati e immersi nelle chiacchiere da cucina ce la prendiamo con la Tunisia  che probabilmente esporta sottobanco molto più olio di quanto non compaia nelle etichette. Ecco dovremmo cominciare ad aiutare noi a casa nostra.