bpAnna Lombroso per il Simplicissimus

Pare che ormai non solo non ci siano più gli intellettuali, organici o non, apocalittici o integrati, ma non ci sia più nemmeno lo spettro dell’annoso confronto su di loro, sul perché siano perfino caduti in disuso gli appelli con le loro firme in calce, sul come ci siamo accontentati che a fare opinione e esercitare una dotta ma blanda critica bastasse una bustina di fiammiferi, sull’eclissi, ma non è detto che sia una disgrazia,  perfino di quelli che Bauman aveva definito l’ intellettuale  “legislatore”, quell’arbitro autorevole che, grazie a un sapere superiore, poteva scegliere e guidare nella controversia tra opinioni diverse,  generando e promuovendo valori destinati a essere imposti e osservati dallo Stato e dai suoi sudditi.

Non è che ne siano circolati molti anche in tempi passati. E meno ancora sono stati i maestri, quelli che con l’esempio sono capaci di accendere le luci del libero pensiero, di svegliare coscienze a di far mettere le gambe alle idee, quelli che animavano le nostre vita e le illuminavano di visioni, fantasia, solidarietà, grazia civile, ma anche di critica e censura caparbia, combattendo l’anestesia delle coscienze e l’idolatria dei consumi. Olivetti, Dolci, Capitini, Rossi, Bobbio, Napoleoni, Caffè, Venturi, Cherchi, scrivendo i nomi degli sconfitti si prova rimpianto e vergogna, perché nessuno è capace o vuole essere il “sale” nelle nostre vite, parlando e scrivendo parole scomode, amicizia, pensiero, minoranza, disubbidienza, diritti, da quando la postmodernità sempre più inclusiva di pochi e esclusiva dei tanti, feudale,  barbara  e ferina ha sostituito la modernità curiosa, sorpresa e sorprendente, quella che voleva che il progresso riducesse il peso del particulare  a vantaggio del comunitario, che promuovesse la liberazione degli oppressi e la costruzione di un ordine sociale più equo, giusto e solidale.

Qualcuno dirà che è colpa della rete, dell’accesso indiscriminato a una comunicazione grezza, perentoria, che aiuta la persuasione e la formazione di opinioni e convinzioni in tempo reale, della globalizzazione  e della complessità che ha prodotto, riducendo la capacità di controllo e di previsione, per non dire dell’azione ordinatrice, sicché resta solo il potere limitato di interpretare attraverso indicatori, criteri e modelli effimeri,   relativi, specialistici e tecnici. Così accade che si attribuisce autorevolezza alla popolarità, alla rivendicazione di un sapere circoscritto, alla visibilità che sostituisce la reputazione, alla tribuna dalla quale ci si esprime rispetto alle idee che prendono forma e vengono offerte: opinionisti, esponenti di quelle indecifrabili professioni assimilate a scienze: sociologia, economia, psicologia, ormai perché no? filosofia, giornalisti, produttori di fortunati instant book, storici della tempestiva immediatezza, intrattenitori, comici, soubrette predilette per fare dei loro tinelli la sede istituzionale per dichiarazioni di guerra o di pace, chef, viaggiatori a pagamento e così via.

Peccato che Pinotti e Gentiloni non siano Sonnino o Corridoni, e nemmeno Boccioni o Marinetti, peccato che l’odierno irredentismo sia quello a tutela di affari più o meno opachi, altrimenti verrebbe da rimpiangere la querelle tra interventisti e neutralisti.

Invece c’è stato un affaccendarsi a difesa della libertà di parola di un “intellettuale” simbolico della decadenza aberrante del prestigio della categoria, quell’Angelo Panebianco, docente di Scienza politica all’ateneo bolognese, l’“Alma Mater”, la più antica università del mondo, ma più noto come editorialista del Corriere, che, mentre svolgeva una delle lezioni del suo corso è stato interrotto da un gruppo di studenti che lo hanno accusato di essere un guerrafondaio. Purtroppo viviamo in un Paese nel quale se dice che un fascista è fascista, si viene querelati. Peccato che il crimine che va sotto il nome di apologia di reato non venga perseguito se il reato ascritto è la propaganda del regime e della sua ideologia. Peccato che abbiamo talmente collocato il pacifismo e il ripudio della guerra, forse perché sancito da una carta costituzionale che si vuole rimuovere con violenza bellica, nel novero delle esangui manifestazioni del pensiero debole di disfattisti sfiduciati e arcaici, così essere come Panebianco un fervente “guerrafondaio”, convinto e convincente, pervicace e indefettibile, un ultrà della curva sud delle azioni militari in difesa della superiore civiltà occidentale con tutti i mezzi, soprattutto i più cruenti e sanguinosi, un sostenitore dell’obbligatorietà della rinuncia alle libertà in cambio della sicurezza,  diventa virtuoso, necessario e lungimirante. Ma soprattutto pragmatico e realistico, come  se compito dello studioso, del docente, del pedagogo, soprattutto del politico, fosse quello di spennare le ali delle idee, della prospettiva storica applicata al presente, per piegare ogni atto alla realpolitik, al compromesso in nome della necessità improrogabile, al dinamismo del fare in sostituzione del pensare e prevedere.

È un gran brutto segno che la dice lunga sul nostro mondo accademico e sul nostro giornalismo scesi in campo penne in resta per schierarsi a fianco dell’autore del volume – nel caso ci fossero dubbi – “Guerrieri democratici”, richiamando a illuminati valori di tolleranza, libertà, moderazione, compostezza, ragionevolezza mai tanto abusati e vilipesi, contro i fantasmi eversivi nascosti dietro alla contestazione di ragazzi che hanno osato dire la verità, che per una volta – e non succede più tanto spesso – hanno rovesciato il tavolo e non hanno voluto stare a sentire, leggere un fondo di giornale, fare si con la testa davanti a un’autorità ufficializzata dalla sua autoreferenzialità e dall’appartenenza a un ceto che possiede e gode di tutte le ultime tribune concesse in esclusiva da un padronato sovranazionale.

In tanto buio delle menti e dei cuori, deve confortarci la ribellione degli studenti bolognesi che non sono stati sull’attenti davanti al barone colonnello, all’aedo di Bush, al cantore delle guerre umanitarie. Forse grazie a loro, che sono poi quelli in prima linea nella guerra condotta contro la democrazia, il lavoro, l’umanità, abbiamo la speranza di salvarci se non dalle bombe, almeno dalla vergogna.