gen 1Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mi succede di rado di sentirmi italiana. Può accadere quando ascolto la sinfonia n. 4 di Mendelssohn, l’Italiana appunto, che parla di genialità dinamica e di tenero lirismo, di energia impertinente e di capricci amorosi, come doveva apparire il nostro paese disordinato e bello ai visitatori stranieri che venivano in pellegrinaggio. Può accadere quando la memoria della resistenza e del riscatto di allora rompe la gabbia  delle celebrazioni rituali e ridiventa una parte di me, di noi,  irrinunciabile, potenza della libertà e volontà trascinante e invincibile di combattere sfruttamento e sopraffazione. È che al tricolore, anche se mi indispettisce l’oscena trascuratezza della sua effigie alla rovescia sul sibaritico aereo del Premier, preferisco la bandiera rossa, a Mameli e anche alla conversione dell’inno alla gioia in jingle laudativo della moneta unica, preferisco l’Internazionale. Non amo un popolo, forse nemmeno l’umanità, preferendo amare alcune persone e sentirmi parte e dalla parte di sfruttati, diseredati, oppressi.

Ma ormai nutro una pena, rabbiosa e  amara, impotente e incollerita nei confronti degli italiani di oggi, per un’altra volta come fosse la prima, implicati in una guerra senza che i loro rappresentanti rendano conto della loro responsabilità e della loro approvazione, che nemmeno loro sono stati chiamati a esprimersi, della quale pagheremo incalcolabili conseguenze in lutti, dolore, paura, possibilità di incrudelirsi di un terrorismo nutrito dal rifiuto e dalla marginalità, costi dissipati e scandalosi che dirottano già investimenti necessari al welfare, all’istruzione, al territorio verso spese in armamenti. Tanto che un campione di noi è stato oggetto di una sbrigativa rilevazione statistica (l’81 % dice no) mentre loro  si ritrovano a farfugliare e balbettare in Tv e il loro capomanipolo recita una pensosa parte in commedia di riluttanza e pretesa autonomia, mentre sappiamo che ha già accettato remissivamente regole, mandato, qualità e quantità dell’impegno.gen 2

Bisogna scavare nel passato peraltro perché l’entrata in guerra sia così esplicita, strafottente di Costituzione e opportunità, evidentemente promossa su pressione violenta e implacabile degli alleati che hanno scelto il soggetto più debole e sciaguratamente, riottosamente vanesio e sfrontato per attribuirgli una turpe leadership e quindi i suoi effetti oscuri. Perché dal ’45 in poi, la nostra partecipazione a interventi bellici e missioni armate è stata ammantata, grazie a ormai scoperte acrobazie semantiche, di finalità altre: aiuto umanitario, sostegno al rafforzamento istituzionale (sic), formazione e addestramento di eserciti, export di democrazia, come se ne avessimo avuta tanta da poterne far circolare in giro.

Parlano di questo le campagne di questi anni: finanzieri  in Eritrea nel ’52, sedicente amministrazione fiduciaria in Somalia dal ’50 al ’60,  Siria, Libano, Israele, Egitto sotto il caso delle Nazioni Unite dal ’58 almeno fino al 2006, missione “umanitaria in Congo per più di 5 anni dal 1959, Libano e poi di nuovo Somalia dal 1982 al 1990, nel 1991  e dal 2003 al 2006 con la Nato in Iraq, qui vicino Albania, Macedonia, Bosnia e Erzegovina, ancora Libano (una è ancora in corso) ancora in Somalia (una tuttora in corso), per non dire dell’operazione “Sostegno risoluto” – si chiama proprio così, in corso in Afghanistan, e dell’Odyssey Dawn in Libia. Potrei averne dimenticata qualcuna di “campagna”, ma le fonti ordinate e organiche mancano, forse per vergognoso pudore, forse perché comportamenti e azioni della nostra difesa, o meglio, offesa, restano ammantati da una opportuna caligine, che cela i patti stretti con gli alleati, il nostro assoggettamento, le operazioni a copertura di interessi privati, la conversione di missioni definite “umanitarie”, di addestramento, insomma incruente, in performance muscolari quando non sanguinose e seminatrici di morte e distruzione.

In questo caso l’equilibrismo di Renzi si preoccupa non tanto di nascondere l’intento e il contenuto aggressivo, quanto di alleggerirne la forma, attraverso la narrazione dell’impegno di specialisti, la mobilitazione, numericamente poco impegnativa, di efficienti spioni, la chiamata dell’intelligence.

Ma di guerra brutta e cattiva si tratta, quell’inevitabile sbocco della politica e della diplomazia, che ne accerta l’incapacità e l’impotenza, che piace a generalesse in tailleur, a boiardi e manager di aziende impegnate in commerci e investimenti bellicosi, a chi pensa che l’ultima risorsa per  uscire dalle secche della recessione, siano la distruzione e la successiva ricostruzione. E a chi ritiene che i conflitti servano a impiegare manodopera, a persuadere della rinuncia necessaria a libertà e diritti per cause di forza maggiore, a far considerare la democrazia un trastullo concesso solo in tempi di pace.

Ci hanno convinti che è normale e inevitabile e ineluttabile il capitalismo senza creazione di un pensiero alternativo, che è normale e inevitabile e ineluttabile l’imperialismo finanziario senza più produzioni, senza più lavoro, senza più garanzie, che è normale e inevitabile e ineluttabile il respingimento senza solidarietà, senza integrazione  e soprattutto senza le  condizioni affinché chi scappa da conflitti, fame, miseria non sia costretto alla scelta disperata di emigrare. E che è normale e inevitabile e ineluttabile la condanna del pacifismo, costretto nelle maglie strette della retorica delle anime belle, del disfattismo poco virile e codardo, del radicalismo arcaico e superato.

Mentre nulla è più antistorico, ottuso, aberrante e autolesionista della guerra, che la si perda o che la si vinca, perché rivela l’abdicazione di ragione, pensiero e umanità, conferma il ritorno allo stato ferino, dando ragione a chi – e se ne intendeva – disse che non aveva idea di quali armi sarebbero servite per combattere la Terza Guerra mondiale, ma di essere certo che la quarta sarebbe stata condotta coi bastoni e le pietre.