Agnese Renzi
Agnese Renzi

Anna Lombroso per il Simplicissimus

A Roma? Beh a Roma sarebbe semplicemente un “sòla”, un di quelli che si sentono così furbi, da tentare il raggiro che ti cambia la vita, vendere Fontana di Trevi o il Colosseo ai giapponesi  o ai texani. A Palazzo Chigi invece, anche senza averlo letto, si sente uno di quei personaggi di Boccaccio,  capace di mettere in tavola una gru con una zampa sola, perché l’altra l’ha offerta a una forosetta maliziosa.  E infatti ci prova sempre il nostro Chichibio  a regalarci una fetta di pane con sopra spalmata la cacca,  dicendo che è goduriosa Nutella e aspettandosi  che ce la mangiamo, gabbati e contenti, per fame o per gola.

L’ha fatto anche oggi. Siccole ogni giorno ha la sua “crescita”, oggi  la scelta del settore trainante per l’uscita dal tunnel e la ripresa è caduta  sull’agricoltura in occasione dell’affidamento, più o meno in regime di monopolio, a Intesa San Paolo  della partita dei crediti all’agricoltura, grazie a un patto stipulato tra governo e banca, un “impegno ambizioso”, ha detto il premier, “che mira a portare l’export dell’agroalimentare dagli attuali   36 miliardi,  a 50”.    Ma possibile: “in Italia l’agricoltura e l’agroalimentare non sono il passato del paese ma la pagina più bella che scriveremo. In questi anni abbiamo perduto la sfida della filiera del valore del prezzo, perché non è stato fatto abbastanza. Dobbiamo far tornare di moda tutto ciò che è agricoltura ed agroalimentare”.

“Far tornare di moda”, è una parola. Ma come? Con una grande campagna di risanamento della Terra dei Fuochi? Rinegoziando in Europa gli innumerevoli capestri e forbici e i dispositivi di negoziazione barocchi della Pac, punitivi per le nostre produzioni? Per non dire dei tagli ai “pagamenti diretti” che andranno a favorire i nuovi partner, penalizzando noi, che pure contribuiamo in misura maggiore al bilancio comunitario

? Limitando l’uso di pesticidi e concimi chimici e incrementando i controlli sull’inquinamento che ha impoverito la qualità dei nostri prodotti? Favorendo  con investimenti e aiuti l’occupazione giovanile nel settore (ad oggi  i dati mostrano che la grossa fetta delle nuove attività inerenti l’agricoltura e la silvicoltura vengono avviate da chi ha più di 35 anni, in moltissimi casi anche oltre i 50 anni. E sulle 45.993 nuove partite Iva del 2014 in questo settore, solo una su cinque è stata aperta da un under 35)? Con l’imposizione di un sistema di regole che dia trasparenza e funzionalità al rapporto tra produttori, allevatori e industrie? Rivedendo un regime fiscale penalizzante? Avviando un new deal che veda lo Stato general contractor di grandi opere di riassetto, bonifica e recupero del territorio, depauperato, dequalificato, avvelenato da speculazione, urbanizzazione, degrado?

Macché, l’annuncio è stato dato, la magia ha avuto successo, la svolta epocale comincia oggi:  il Ministero delle Politiche Agricole cambia nome. Si chiamerà Ministero delle Politiche Agroalimentari.

Ecco servita la nostra fetta di pane con la sua Nutella, quella combinazione di menzogne, prese per i fondelli, patacche e illusionismi che dovremmo vergognarci di subire. Che ci fanno rimpiangere ere trascorse quando ci pareva di non stare bene, non sapendo cosa ci avrebbe riservato il peggio odierno. Che ci fanno rimpiangere la Legge Galasso e perfino un ministro del Governo Monti, tal Catania, l’unico dopo anni a impegnarsi per dare forma a una legge quadro per la tutela del suolo agricolo. E che farà passare senza opposizione il progetto di legge governativo che insieme a un malinteso rispetto del pluralismo istituzionale crea un sistema decisionale talmente farraginoso e complesso da rendere inapplicabile qualsiasi misura e norma. Salvo quelle che interessano davvero a un governo completamente asservito a padronato, proprietà, rendita. Due veri e propri capisaldi irrinunciabili, in contrasto con l’obiettivo del contenimento dell’uso del suolo e che costituiscono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.

I primi sono la solita acrobazia pensata  per legittimare la trasformazione dell’edilizia rurale in altre attività (amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, eccetera). Così una legge che dovrebbe trarre origine  dall’intento di promuovere e tutelare l’agricoltura, il paesaggio e l’ambiente  legalizza quindi la distruzione dell’attività agricola e dei relativi manufatti.  La cosiddetta “rigenerazione” è peggio ancora, sulla stessa linea delle “valorizzazioni”, quei processi secondo i quali per ottimizzare le foreste tropicali o pluviale, non c’è di meglio che tagliarle per farne parquet. Ipotizza una delega al governo a emanare   decreti legislativi per l’agognata semplificazione delle procedure, una cambiale in bianco,   priva di principi e criteri direttivi, senza nessun rapporto e nessuna integrazione con l’ordinaria disciplina urbanistica, quindi una licenza per la speculazione, per le deroghe, per una inquietante commistione delle finalità di tutela con istanze di profitto immobiliare, con quel  land grabbing, l’accaparramento di suoli fertili, che è uno dei brand vincenti delle multinazionali.

 

È che anche in questo caso servirebbe una riforma, una riforma agraria. Mentre, a cominciare dall’abuso del termine riforma, applicato impropriamente alla cancellazione del lavoro, alla manomissione della Costituzione, all’esproprio di partecipazione, all’eclissi di democrazia, Chichibio sa giocare solo con le parole, cambia i nomi, stravolge la semantica, tanto che chiama politica il suo meschino industriarsi da giocoliere di piazza, governo il suo carro di guitti, occupazione le nuove e sempre più precarie servitù. Ma se lo sopportiamo non abbiamo più il diritto di chiamarci cittadini.