Anna Lombroso per il Simplicissimus

Devo fare una premessa, ormai necessaria per discolparsi dalla bruciante accusa di dabbenaggine, insipienza, buonismo fino alla correità,  che viene mossa contro chiunque abbia la proterva determinazione a porsi domande e cercare risposte, invece di affidarsi fiduciosamente a messaggi caduti dall’alto, a pregiudizi condivisi e consolidati o all’accettazione di un pensiero che si vuole sia comune.

I fatti avvenuti in Germania sono da condannare. Come è obbligatorio fare nei confronti di atti criminosi, e con particolare forza quando si tratti di reati  e violenze concertate e praticate da gang,  da organizzazioni malavitose che mutuano modi e rituali di stampo mafioso, che compiono atti illegali contro individui singoli o collettività con una potenza amplificata dalla liberazione degli istinti e delle pulsioni che albergano  e vengono esaltati dalla massa: sessismo, omofobia, razzismo.

Ancora più grave se proprio quegli  impulsi viscerali e irrazionali che trovano sfogo e forza proprio grazie all’appartenenza e al reciproco riconoscimento in una folla, in un gruppo, in un credo prendono la forma della sopraffazione su soggetti più vulnerabili, più deboli e disarmati, del machismo, quando il sesso diventa un’arma fisica e culturale brandita dal più forte, per tradizione sociale e culturale.

Tutto questo è odioso e grave e preoccupante. Ma credo che minacci di diventare altrettanto preoccupante – e miope se non strumentale –  una interpretazione dei fatti come della manifestazione di un fenomeno di “genere”, che raccomanda a tutti i costi agli europei  la tutela dai selvaggi, per usare l’icastica definizione di Pascarella, delle “nostre donne”, che così siamo state definite da chi non manca di rivendicare un diritto proprietario anche sulle persone, che sollecita a risparmiarle a tutti i costi, compresa la perdita di libertà, dal brancicare di mani colorate, avide e oltraggiose, che vuole persuaderci dell’inevitabilità di incrementare diffidenza, favorire emarginazione e esclusione, come ha suggerito di fare la sindaca  Reker consigliando alle donne di tenere gli stranieri  “a un braccio di distanza”. E che si tratti  di un episodio tra i più significativi di quello scontro di civiltà in nome del quale siamo stati e saremmo pronti ad andare in guerre esportatrici di democrazia e a sfondo umanitario, più dell’accoglienza difficile e dell’integrazione che si dimostrerebbe irrealizzabile: da una parte il fanatismo di una fede e di identità di popolo nelle quali  sarebbero   connaturati violenza, barbarie,  misoginia feroce e   imperativi refrattari a logica, umanità e democrazia,  dall’altra il consolidato riconoscimento dell’uguaglianza tra le persone, dei pari diritti di uomini e donne, dell’addirittura superiore rispetto dovuto alle donne in quanto madri.

Come se, è perfino banale dirlo e vale la pena di ricordarlo all’Annunziata e ad altre che annunciano la buona novella della nostra civiltà superiore, non ci accadesse di essere palpeggiate in tram, di essere stuprate, oltraggiate, violentate, prese a botte fino al femminicidio da lombardi, romagnoli, toscani, alto atesini, calabresi, sardi eccetera eccetera, senza distinzioni geografiche e anche dentro le mura di casa. E  come se le disuguaglianze del nostro tempo non avessero anche accentuato perversamente quella tra donne e uomini, nel salario,  nelle opportunità di lavoro,   nelle scelte di vita, nei diritti, compresi quelli che riguardano la maternità diventata un lusso e – come dimostrato da fatti recenti – un rischio. O come anche se nella progressiva mercificazione di tutto,  lavoro, paesaggio, arte, cultura, risorse, noi donne non fossimo più esposte, da tempo oggetto di scambio nelle pratiche di corruzione, di nuovo e diffusamente schiave in una tratta internazionale che passa per i nuovi trafficati di immigrati come per il turismo sessuale ed anche per i caporali che fanno vivere giorno e notte in baracche senza porte e finestre le lavoratrici straniere che taroccano le grandi firme della moda.

È vero, non c’è giustificazione per i raid intimidatori e aggressivi compiuti ai danni di un centinaio di donne in una notte di festa.

Ma se come è probabile  avrebbero agito in maniera sostanzialmente organizzata gruppi di giovani, che i testimoni  descrivono come di origine nordafricana e araba, molti dei quali parlavano tedesco,  se come sembra  le molestie siano servite da “copertura” ai furti di denaro, gioielli e telefoni cellulari o se siano un effetto ed una conseguenza dei borseggi di gruppo, se come si è detto, apparterrebbero a una rete criminale  forse proveniente da   Düsseldorf specializzata in rapine e scippi, se quindi – come sempre avviene – siamo di fronte all’operato di una delinquenza che si è strutturata e che si avvale di una manovalanza di disadattati, marginali, esclusi, allora siamo obbligati a riflettere su moventi, colpe, responsabilità e rischi comuni. A ripeterci che in presenza di una crisi mondiale anche i Paesi che avevano praticato l’accoglienza per includere forza lavoro, oggi non sanno garantire il minimo necessario a non favorire malessere e rabbia, che avremmo dovuto imparare dalle lotte nelle banlieu, dagli espropri violenti nei sobborghi di Londra e in tutta la Gran Bretagna che le seconde e terze generazioni di immigrati non si accontentano di una malmostosa accettazione della loro scomoda presenza, ma vogliono partecipare del benessere, perfino di quello che abbiamo largamente perduto noi nativi.

Non si tratta di avere indulgenza, ma di capire prima che sia troppo tardi, se non è già troppo tardi, che se esporti violenza e guerra, succede che ti siano rese in casa. Che non sono diversi i ragazzi che ciondolano nei bar dei loro paesi, senza lavoro e senza futuro, dagli altri  ragazzi che arrivano pretendendolo, fuggendo da morte e paura, ma vengono costretti in campi o accampati nei giardinetti a simboleggiare il loro potenziale aggressivo in modo da suscitare diffidenza e rifiuto. Che siamo stranieri in patria e la soluzione non è darci battaglia.