Una volta, quando ero ragazzo, esistevano gli albergatori, i ristoratori, i commercianti, i baristi, i fruttivendoli, i tabaccai, i meccanici, i gelatai, i tassisti, i costruttori e via dicendo: era un mondo dove la funzione, ovvero il lavoro nella sua concretezza, generava la definizione. Poi al di là di un limes invisibile e tuttavia chiarissimo esistevano industriali, capitani di industria e industrialotti a seconda dei casi. La parola imprenditore ( vedi nota) era quasi sconosciuta al di fuori della letteratura economica e soprattutto non era usata in maniera talmente vaga e onnicomprensiva che quando senti parlare di imprenditore non sai se si tratta di un salumiere o di un creatore di software, del padroncino di un call center, del proprietario di un bar o di una media industria.
La mutazione del linguaggio si è avuta quando il lavoro – non solo quello in fabbrica – ha cominciato ad essere svalutato in favore dei fattori monetari o di rischio e il berlusconismo nascente ha imposto la parola come una dorata panacea per il suo blocco sociale. E’ stata un’azione molto astuta: nei primi decenni del dopoguerra il settore terziario aveva accumulato molto grasso sotto la pelle, anche grazie alle strizzate d’occhio fiscali della Dc nei confronti di ceti emergenti che non dovevano finire nel paiolo dell’opposizione. Avere un negozio, un albergo o un’attività nell’artigianato di servizio, significava spesso godere di un reddito reale consistente, di molto superiore a quello del lavoro dipendente e non di rado anche delle attività professionali. Ma a questa posizione di censo, in una società arretrata come quella italiana, mancava ancora una sorta di “legittimazione” sociale che non sempre poteva essere superata dalle nuove generazioni dotate del fatale pezzo di carta. Così il berlusconismo impose una parola neutra rispetto al tipo o alla grandezza dell’attività e in qualche modo affine a quella guida del boom economico, ossia al venerato industriale. Todos caballeros, tutti imprenditori.
Naturalmente, anche se la legislazione ha finito per incorporare questa mutazione linguistica, l’imprenditoria, nel suo significato storico e tecnico non ha niente a che vedere l’imprenditore generico di marca berlusconiana. Benché vi sia qualche discussione in merito non c’è dubbio che la definizione più esaustiva e pregnante sia stata data da Schumpeter: “La caratteristica che definisce l’imprenditore è semplicemente il fare cose nuove o fare cose che si stanno già facendo in un modo nuovo… La ‘cosa nuova’ non deve essere spettacolare o d’importanza storica. Non c’è bisogno che sia l’acciaio Bessemer o il motore a scoppio. Può essere la salsiccia Deerfoot”. Lascio a voi giudicare quale sia la percentuale di imprenditori veri sulla massa che si compiace di chiamarsi così. E del resto l’alienazione della parola da un’attività concreta se libera il fruttarolo dalla maledizione delle cassette di legno, la rinchiude nella privazione di senso del pensiero unico, come dimostra il fatto che chiunque di noi avesse voglia e disponibilità di pagare le quote di una qualche associazione camerale sarebbe tout court imprenditore anche senza fare nulla.
La cosa notevole nella definizione di Schumpeter è che l’imprenditore non ha niente a che vedere in sé col capitalista e distingue tra valore generale di un’attività e il semplice profitto escludendo di fatto dall’imprenditorialità la parte preponderante dell’economia attuale fatta di operazioni speculative a breve termine, di ingressi nei casinò finanziari, di giochetti azionari o commerciali. Non è un caso che la parola entrepreneur (presa di peso dal francese) sia pochissimo usata nella lingua del capitalismo, ovvero l’inglese, che la sostituisce con businessman o manager o ancora con empolyer, datore di lavoro. Forse orientando pietisticamente la cattiva coscienza perché entrepreneur fu coniato dal finanziere francese Cantillon che vi associava anche ladri, donne di malaffare e banditi che dopo tutto hanno attività in proprio. Il che non differisce molto dalla realtà attuale anche se sotto altra forma. Schumpeter è chiaro accenna attraverso la sua definizione a una dinamica economica diversa nella quale occorre distinguere tra lavoro e speculazione, creazione e organizzazione.
Comunque sia, una volta accertata l’origine e lo scopo sociale e politico di una parola imposta dai media, la prima cosa da fare è decostruirla, rifiutarne l’uso in tutti i casi in cui sia possibile. Ritornare al lavoro è anche ridare senso alle attività, senza annegarle nella notte dove tutte le vacche sono nere. Se l’imprenditore viene definito in ragione del profitto e delle sue dinamiche, non della sua attività, è lì che bisogna cominciare a fare breccia dentro l’atonia del pensiero unico e dei suoi presupposti e ricominciare a collegare i brandelli dispersi di una società.
Nota. Imprenditore deriva dal latino prehendere, composto da pre in origine col significato di “di fronte” e dall’antica radice indoeuropea had con il significato di mano, dunque di afferrare o di abbracciare anche se questo significato meno impositivo e più affettivo si è via via spostato sul composto cum prehendere, cioè il nostro comprendere.
Non solo Berlusconi. Bisogna anche ricordare che negli anni 90 Massimo D’alema, a fronte della crescente precarizzazione ed insufficienza del lavoro, invitava gli italiani ad essere gli imprenditori di se stessi. Pensava di essere moderno, ed invece riproponeva una caratteristica negativa propria degli italiani e correlata alla loro storia.
Da un lato l’Italia ha avuto un precoce sviluppo cittadino ed artigiano, ma dall’altro una tardiva unità nazionale. Si è quindi formato tardi il mercato nazionale, quello nel quale vengono superate le produzioni piccole ed arretrate in favore di concentrazioni produttive più grandi e capaci di economie di scala.
Per questa ragione in Italia si è sempre mantenuta una preponderanza della piccola borghesia, che col suo localismo e nanismo produttivo è storicamente uno dei maggiori ostacoli alla modernizzazione dell’italia (evasione fiscale pur necessitata ma derivante dal nanismo produttivo , lunghezza eccessiva della filiere di ogni tipo, scarsa innovazione tecno-scientifica per mancanza di capitali etc.)
Solo la breve fase della economia mista pubblico/privato ha in parte guarito la società italiana da questi suoi mali storici, ma proprio D’alema è stato uno dei massimi alfieri della sua dismissione. Non a caso egli ha proposto l’italiano imprenditore di se stesso ovvero il ritorno ad una delle nostre piaghe storiche (ci sarebbe molto da dire sulla presunta inefficienza della economia mista o della programmazione proposta dalla sinistra negli anno 60 ma il discorso si farebbe troppo lungo)
L’altro giorno chiedo informazioni circa una proposta immobiliare in una piccola agenzia, il giovinotto che la dirige per prima cosa mi dichara di essere un “imprenditore”. Un intermediatore la cui attività non genera nuovo valore, una tipica figura del lavoro improduttivo, penso io.
Oggi tutti quelli che hanno un ruolo consimile nella società si dichiarano imprenditori, si dicono imprenditori i furfantelli di ogni tipo. L’articolo che commento mi piace davvero, risponde ad una vera e propria esigenza sociale, quella di chi non sopporta ” l’imprenditore “, figura mistificatoria tipicamente italiana e sconosciuta in altri paesi europei
Non capisco però la distinzione tra sfera finanziaria speculativa ed capitalismo produttivo o industriale sano. E’ stata proprio la crisi di quest’ultimo a innescare la speculazione finanziaria ovvero la produzione di capitale fittizio
La crisi di cui si parla è dovuta al fatto che da un bel pò la produzione richiede investimenti tecnici così colossali che non possono essere ammortizzati nei tempi ristretti di un ciclo capitalistico
La via di uscita obbligata diviene l’ipertrofia della sfera finanziaria, le azioni delle imprese non hanno piu la funzione di finanziare queste stesse imprese, tenute poi a produrre nel futuro tanto valore da pareggiare il valore nominale delle azioni. In verità un simile valore non sarà mai prodotto, non sono neanche ammortizzati gli investimenti .
Siffatte azioni cambiano quindi natura, non crollano perchè nascoste in mille ed oscuri prodotti finanziari, ed aquistate a perdere ed in modi altrettanto oscuri da FED, BCE etc. In effetti servono solamente a sostenere i corsi delle azioni le famose Bad Bank, i quantitative easing e e tutte le misure del genere.
Ma proprio queste azioni e prodotti finanziari hanno la funzione nuova di integrare la capitalizzazione delle aziende, la solidità dei fondi pensione privati, i bilanci delle banche. Senza questa indigestione di capitale fittizio tutti questi soggetti economici sarebbero già falliti e da anni.
In una parola, solo la bolla alimentata dalle banche centrali tiene in piedi la cosiddetta economia reale, questa non può esistere se non come funnzione passiva della speculazione finanziaria.
E quindi illusorio pensare di salvare un capitalismo buono e produttivo eliminando quello speculativo. Ed è illusorio inseguire questo risultato attraverso le politiche keynesiane. Queste sono già fallite producendo immani deficit pubblici sul finire degli anni 70. Evidentemente, per chi ragiona prescindendo da questi dati di fatto, è più facile pensare un capitale senza mondo che un mondo senza capitale.
Eccomi quä, sono proprio uno dei tanti intermediatori commerciali che “non produce valore, una tipica figura del lavoro improduttivo”.
Non mi sento offeso di questa definizione, una volta ero stipendiato da una grande azienda, poi hanno detto che che ci dovevano licenziare per servirsi di noi come collaboratori esterni a partita IVA.
Ci hanno prospettato guadagni maggiori, con l´obbligo di non lavorare per la concorrenza, quindi lavoro dipendente mascherato da autonomo.
A me e“ andata bene, i vecchi colleghi fanno tutti la fame. Ho lavorato per la concorrenza ed oggi lavoro per tutti i concorrenti e sono molto piu ricco e pasciuto di prima. Ma il mio e un caso particolare, lavoro per esportare nel ricco mercato tedesco. E´ che ce po fä uno se ti costringono a diventare “imprenditore” ? Forse il mio lavoro sarä improduttivo di valore ma e comunque utile , giova alle esportazioni italiane.
Sono comunque imprenditore mio malgrado, e nel 95% dei casi le storie lavorative come la mia finiscini male. E che ce ponno fä tanti che avevano lavori come il mio, se oggi fanno la fame e sono pure “imprenditori” ?
Comunque la crisi e grave, non date retta a cicciobello renzi ed ali magnaccia che sono dietro di lui, siamo oltre il punto di rottura. Solo in Italia non lo sappiamo, ma per gli operatori economici hoch-deutsche (va meglio dire cosi´`?) l ítalia non si riprende piü.
Ed anche qui, nel cuore della Große Deutschland, la gente ha sempre meno soldi, le ferrovie fanno quasi schifo perche non ci sono soldi per migliorarle e il debito pubblico e da brivido piu di quello nostrano. I mass- media dicono solo stronzate, sullítalia come sulla germania. La fine del mondo e vicina, mi chedi scusa o no per avermi dato dellímproduttivo ?
Il termine “imprenditore” è simbolo della ribellione lessicale contro il nessunismo. In base al quale (nessunismo), chi e’ “qualcuno” può dire ovvietà o cazzate assolute e tutti gli pendono dalle labbra. Mentre chi è “nessuno” può magari avere qualche idea originale, ma è come se parlasse al vento.
Il 99.99 per cento degli imprenditori rimarrà nessuno, ma, appunto, il termine permette loro di ritenersi “qualcuno” e vincere la loro piccola battaglia contro il nessunismo.
La figura lessicale, simmetrica e speculare dell’ “imprenditore” e’, o meglio sono, le “start-ups” – vere e proprie orge di megalomania truffaldina, nonché formidabili macchine per intrappolare gli allocchi – nel 999,9 per mille dei casi.
le start-aps i italia si occupano do organizzare il lavoro delle badanti tramite il pallottoliere,e per fare questo devono avere la presenza in organico di due laureati in matematica con 110 e lode, e di un laureato in economia e commercio alla bocconi.
Verificare per credere.
Non date retta alle bufale economiche di disco-bambino Renzi e di disco-bambina Boschi
L’ha ribloggato su apoforetie ha commentato:
E del resto l’alienazione della parola da un’attività concreta se libera il fruttarolo dalla maledizione delle cassette di legno, la rinchiude nella privazione di senso del pensiero unico, come dimostra il fatto che chiunque di noi avesse voglia e disponibilità di pagare le quote di una qualche associazione camerale sarebbe tout court imprenditore anche senza fare nulla.
Non ho compreso bene dove si voleva andare a “parare” con questo art. fermo restando che l’ho apprezzato come intenzione e divulgazione su un argomento, fra i tanti, che si danno sempre troppo per scontati.
Nella mia esperienza lavorativa, a maggior conferma con questo casuale, inaspettato e ben articolato aggiornamento.. datoci oggi dal Simplicissimus, credo di aver avuto modo di saper ri-conoscere solo “imprenditori” (o aspiranti tali) tutti sotto la definizione francese “entrepreneur”.
Il non percepire sin da allora una differenza fra alto capitalismo… giù giù fino a una scala di “valori obliqui” pragmaticamente operativi, non mi è risultato difficile; tanto da ritenere ancora oggi ogni piccolo e pseudo imprenditore (..entrepreneur) il potenziale evasore fiscale che attende ad “esistere”, e a resistere, dentro un sistema di manopolazione socio- speculativa data dal mercato finanziario (..nel nostro caso, sdoganamenti berlusconiani pre-elezioni, son poi bastate le certosine applicazioni al già “sterile” stato locale).