presepeAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ve piace ‘o presepe?  E quella statuina di gesso, aggiunta un anno fa, seduta in pizzo alla poltrona, pallida pallida, mesta mesta,  in mezzo a un lussureggiare di stella di Natale, broccati e tappeti, ve piace?  E la sua predica a reti unificate, l’ultima vestigia del passato remoto della democrazia tradita a cominciare dal diritto dei cittadini a scegliersi i rappresentanti tramite libere elezioni, stracciata la Costituzione nei suoi principi: lavoro, rifiuto della guerra, uguaglianza di fronte alla legge, solidarietà, ve piace?

Beh, se non vi è piaciuto è proprio perché non siete animati di commendevole spirito natalizio, o, peggio ancora, appartenete a quella pletora di eterni scontenti, brontoloni e negativi fino al disfattismo nichilista e sfiduciato,  che vi rende ciechi perfino davanti al manifestarsi dei luminosi segnali dell’attesa a auspicata ripresa, al palesarsi delle prime avvisaglie della crescita promessa e ora garantita grazie agli sforzi del governo, quello che ha appunto ritagliato e seduto su  quello scranno rigido seppur imbottito –  per trasmettere  probabilmente un messaggio di “scomodità” dettato dal ruolo difficile che è andato a ricoprire – la sagoma di cartone della più alta carica, il cui più vivace segnale di appartenenza alla vita   era il rotear delle glauche pupille per seguire la telecamera.

Eh si, deve essere così perché lui ce l’ha messa tutta per piacervi, sciorinando nel breve, ma sentito come le condoglianze, pistolotto tutti i luoghi comuni, gli stereotipi più triti, le banalità più rassicuranti che il ceto dirigente immagina voglia sentire la cosiddetta società civile. Più imbalsamatore che anestesista, il soporifero presidente degli italiani ha sapientemente rinunciato alla autorevole cattedra, cara al precedente monarca e evocativa di bolle e messaggi sdegnati e vibranti, per sedersi in tinello, come se fosse in mezzo a voi. A parlare delle famiglie in sofferenza, giovani pieni di talento e di fervide vocazioni ma senza opportunità di lavoro, del Mezzogiorno penalizzato, di donne discriminate quando non soggette a violenza e prevaricazione, di un paese malato di corruzione e depredato dalla corruzione endemica, proprio come se quella poltrona nel salottino del Colle, fosse lo strapuntino di un vecchio scompartimento ferroviario, la sedia davanti al tavolino della pasticceria Sant Ambroeus affacciato sul marciapiede dell’operosa e solidale capitale morale, o del Caffè Caflisch di Palermo, a contemplare pensoso quei metalmeccanici in corteo, quei  disoccupati che manifestano, quegli studenti che passano, quelle ragazze che devono tornare a difendere l’aborto legale, quei risparmiatori derubati dalle banche di fiducia.

Piazzato là, compunto e solenne come un monumento a una dimensione, Mattarella ci ha rappresentato come una efficace allegoria cosa vuol dire super partes. E cioè raccogliere magari tramite l’Istat – l’istituto incapace di quantificare emolumenti e benefits dei parlamentari, di censire disoccupati e poveri, ma, l’abbiamo saputo ieri, impegnatissima nel rilevare statistiche  in merito alle preferenze in materia di amicizie con coetanei dei bambini stranieri – o grazie alla tradizione orale di osservazioni tratte dalla vita reale, da parte di consiglieri e addetti stampa, sporadiche informazioni su quello che succede sotto al Colle, e tenerle buone in previsione del confezionamento di messaggi urbi et orbi.  E basta. Perché la collocazione geografica e la superiorità istituzionale viene interpretata  come necessario e doveroso distacco dalla politica e dalle responsabilità che ne derivano, limitate nell’apposizione del sigillo notarile per approvare senza discussione le decisioni, perlopiù dettate da oltre  confine, dell’esecutivo. Tutte, comprese quelle che producono precarietà, che riducono lo stato sociale, che limitano libertà d’espressione, che investono in opere dannose per l’ambiente oltre che per il bilancio dello stato, che confermano l’inviolabilità delle banche e dei loro management, anche  quelle truffatrici e infedeli rispetto alla loro missione, che riducono la Costituzione a carta straccia e con essa la democrazia.

Se ogni volta che parlo di legalità, mi si rinfaccia di essere una moralista, peggio ancora mi accade quando evoco la solidarietà, che subito vengo tacciata di buonismo. Da ieri l’accusa è ancora più bruciante, perché a garantire la congruità istituzionale delle cattiverie feroci della nostra classe al governo, hanno messo a far la guardia l’interprete di quella iniqua retrocessione della generosità a  commiserazione, della responsabilità a contemplazione e accondiscendenza, della compassione a elemosina,  dei diritti a elargizioni arbitrarie, della sicurezza a censura e limitazione delle libertà, della partecipazione a liturgia estemporanea a conferma di voleri superiori.

Ve piace ‘o presepe? A me, no, a cominciare da quella statuina di gesso…