imagesAnna lombroso per il Simplicissimus

A volte, raramente,  mi sono interrogata sul perché individui non spregevoli, affermati nella loro professione,  abbiano deciso di candidarsi. A volte, raramente, per carenza di materia prima sulla quale esercitarmi, mi sono chiesta come mai si siano candidati con il Pd, che fin  dalla sua “creazione” con il “demiurgo” Veltroni che tirava su una manata di fango per dare una forma grossolana e primitiva a un partito liquido del quale rivendicava la totale e orgogliosa discontinuità con passato e il distacco definitivo dalla ragioni e dalla testimonianza e rappresentanza di sfruttati, lavoratori – pareva ancora che il lavoro e i suoi valori ci fossero – emarginati, diseredati. Mi sono risposta che la vanità e l’ambizione sono motori formidabili, che il senso reale o virtuale della perdita di beni e sicurezze che ha investito anche i “garantiti”, rendeva ancora più desiderabile l’unica occupazione che pare tutelare rendite e privilegi di chi entra a far parte dell’ “albo”, ben più dell’appartenenza a ordini, dell’affiliazione in  “associazioni” e della fidelizzazione in imprese. Che poi ormai il coagulo di consenso intorno a un partito, o meglio a un leader, avviene secondo le stesse modalità, quelle dell’organizzazione aziendale, del marketing, della pubblicità commerciale.

Sono una carogna e non mi sono mai risposta che la decisione nasceva da motivi nobili, dalla volontà, vocazione o istinto a prodigarsi in nome della collettività, o dalla speranza che la semplice e simbolica ostensione della propria integrità e generosità, sia pure in considerazione della conclamata impotenza a orientare altrimenti le scelte della cerchia dello screanzato guappo toscano e degli interessi dei quali è portatore,  potesse galvanizzare e rafforzare una minoranza silenziosa, assoggettata, ricattata e ricattabile.

Avevo dimenticato che a volte il movente è un’affinità, una simpatia e somiglianza di branco, l’appartenenza insomma alla stessa specie di animali politici come si diceva una volta,  quando l’aggettivo politico non era ancora diventato un’aggiunta inappropriata. Magari rinnegata come una vergogna, rimossa come una colpa, smentita come una bestemmia, ma invece  reale e che riaffiora come un fiume sotterraneo in occasione di duelli al coltello nel contesto di guerre per bande, di  dissapori nella gang, di conflitti nell’atto di sbranare qualche preda, con preferenza per brandelli di costituzione, democrazia, diritti e libertà

Non sono stata mai una fervente ammiratrice di Mineo per via – sono faziosa – della diffidenza che mi anima nei confronti di giornalisti e opinionisti che rivendicano indipendenza, autonomia di pensiero e di espressione, pur stando bene e al caldo nella cuccia di mamma RAI come in altre tane altrettanto comode e accoglienti con chi si adegua alle regole aziendali, che sempre di più coincidono con quelle di “regime”. E la sua sortita nel contesto della liturgia annuale di propaganda del libro di Vespa e in risposta al colpo impietoso di misericordia del segretario del Pd, conferma che, come dice un vecchio proverbio, chi si somiglia si piglia, o che la circolazione nelle stanze del potere, negli arcana imperii, produce un contagio irresistibile, tanto che se ne mutuano e adottano modalità, vizi, procedure, linguaggi, soprattutto quelli mafiosi dell’avvertimento intimidatorio,  della minaccia bofonchiata a mezza bocca: lui sa che io so, prima o poi parlerò e così via in quell’inanellarsi  patetico di messaggi trasversali cui ricorre chi è condannato al cono d’ombra o a un giro in macchina verso Coney Island.

Poco interessa chi sia la “dama velata” che ha costretto in stato di voluttuosa soggezione il premier, ancor meno la diagnosi di turbe, vizi, patologie.

È che l’esistenza in vita del Pd era  stata assicurata grazie a una “opposizione” che si era dispiegata allo stesso modo, con l’attacco quotidiano ai capricci del puttaniere, ai suoi  costumi disdicevoli d’alcova, alla folla di donne variamente “prezzolate”, capaci grazie a quella potenza in grado di trainare carri di buoi, di condizionarne scelte e comportamenti, riducendo a temi secondari l’attentato riuscito alla libertà di stampa, alla democrazia, alle leggi, alla rappresentanza, alla legalità oltre che al buon gusto e al bon ton.

Che la critica a Renzi, alla sua guerra al lavoro, all’istruzione pubblica, alla sanità, all’assistenza, alla proprietà collettiva dei beni comuni e delle risorse, possa ridursi all’analisi del caso clinico, alla suggestione che l’attempato zerbinotto sia il succube obnubilato e plagiato di una dark lady che lo muove come un burattino, ma che non è la Merkel, è sconsolante, come sempre lo è il tentativo di forgiare e interpretare la storia e anche la cronaca con il primato di passioni che non siano l’accumulazione, l’avidità o l’altrettanto smodata ambizione, di condensare tirannidi, dispotismi, dittatura nel quadro clinico di matti, psicopatici, alienati.

Almeno risparmiamoci l’avvilimento di apprezzare il delirante e imbarazzante  “dissenso” alla Mineo: l’inclinazione compulsiva di quel che resta della sinistra a dare ragione e sostegno a improvvisati e nuovi nemici dei nemici ha sempre prodotto danni incalcolabili. Perché quelli, in tutto il mondo, hanno saputo unirsi come noi dovremmo imparare a fare.