imagesAnna Lombroso per il Simplicissimus

A Venezia si può quasi tutto ormai: far passare navi alte sei o sette piani davanti a San Marco, allargare un hotel già brutto grazie a una sciagurata appendice di cemento bianco, trasformare un antico “fondaco” in centro commerciale del lusso, stravolgendone carattere e tradizione, scavare un gran buco,  cancellando un boschetto, per farci un Grande Palazzo del Cinema, scoprire che sotto il suolo c’è l’amianto, prelevarlo e spedirlo in Germania a pagamento dove lo usano come base per costruzioni edilizie con doppio profitto, ricoprire alla bell’e meglio la vergogna, soggetta a annuale camouflage come l’Expo in occasione del Festival e comprare un ospedale per farci il Grande Palazzo del Cinema n.2, che non si fa perché non ci sono i soldi e le imprese che si erano impegnate a contribuire in regime di project financing, tutte ampiamente coinvolte in “Mafia Serenissima” non sono mica così sceme da tirar fuori quattrini, che per quello c’è lo Stato e ci sono le tasche dei cittadini. E poi cambiare acrobaticamente la destinazione d’uso di edifici a vocazione e funzione abitativa per farne B&B, hotel, case-vacanza, meublé: dal 2010 al 2014 sono quasi 3000 le “conversioni” autorizzate dal Comune.

L’ultimo caso, particolarmente sfacciato, riguarda una giovane ed esuberante signora che non ricavava sufficienti utili  da alcuni  suoi immobili situati in posizioni a suo dire “poco appetiti”  dal mercato – Riva degli Schiavoni e adiacenze, insomma accanto al Danieli che infatti ne usava alcuni come dependance – dandoli in fitto a normali inquilini e alla quale, per far fronte a tasse e spese – anche i ricchi piangono – il Comune ha concesso di convertirli in strutture di accoglienza alberghiera. Con un’aggiunta non trascurabile: la pimpante imprenditrice in questione, che rivendica di voler “investire” nella città, e che potrà approfittare di una generosa e benevola delibera comunale, in quel munifico municipio è consigliera, eletta nella lista del Sindaco Brugnaro.

A Venezia si può fare quasi tutto. Ma mica solo là.   A Genova sta per essere completata la costruzione di un parcheggio a pagamento da 350 posti auto   sulla sponda destra del torrente Bisagno, a 10 metri dall’argine. Il costo, 5 milioni di euro, interamente coperto con i fondi europei destinati ai Piani Organici Regionali, erogati dall’ente gestore, l’allora provincia di Genova, coprirà i costi della imponente struttura in cemento armato,   due piani della quale saranno interrati, nonostante il Puc, Piano urbanistico comunale vieti di costruite parcheggi sotterranei. Per aggirare il fastidioso ostacolo e concedere l’autorizzazione all’opera e alla sua appendice underground, il garage è stato “millantato” come “costruzione in struttura” che avrebbe impiegato gli spazi di un precedente deposito della Protezione Civile, protetto da un argine alto appena un metro. E l’argine del torrente è stato innalzato a 10 metri, creando una specie di diga che, a detta dei geologi, potrebbe trasformasi in una sorta di “salto”  delle acque nel caso fosse investita da un’onda di piena. Ma si trattava di un’opera di pubblica utilità e quindi irrinunciabile: prelude a una successiva e prossima colata di cemento che si abbatterà su quell’area, anche quella super autorizzata da Comune e Regione (il cui presidente, regalatoci anche grazie all’inopportuna candidatura proposta dal Pd,  confida in una crescita per la regione interamente affidata all’edilizia) con centri commerciali e quartieri dormitorio.

Il fatto è che in Italia si può fare tutto. Basta pagare. E nemmeno tanto, è sufficiente appartenere al gotha, nazionale e non, del mercato immobiliare e dell’edilizia, del cemento e delle trivelle, delle grandi opere, dei grandi eventi, dei grandi buchi, dei grandi tunnel e dei grandi ponti. Ma anche di quelli più piccoli, perché è in corso una mutazione della speculazione i cui grandi promotori sono il settore pubblico e le sue declinazioni territoriali: Stato, comuni, Regioni, città metropolitane, tutti legittimati a dissipare territorio, beni comuni, risorse, a dilapidare quattrini per opere futili, a investire in fondi e derivati, a tagliare servizi essenziali  per far fronte all’indebitamento e per sopravvivere ai nodi scorsoi del  pareggio di bilancio. Tutti in realtà ben addestrati e contenti di beneficare privati potenti o contigui, alte o basse sfere, padroni o famigli.

In una ormai continua prova generale del TTIP, ogni settore della nostra vita diventa oggetto di  commercializzazione, di mercificazione, a cominciare dai servizi, grazie alle accurate definizioni che ne danno i trattati secondo i quali non sono da considerarsi “servizi pubblici”  quelli la cui attività di “distribuzione”   può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo nazionale o locale, sicchè finiscono per essere considerati tali non l’assistenza, non la sanità, nemmeno la scuola, l’acqua, l’energia, ma solo l’amministrazione della giustizia, la difesa, l’ordine pubblico e poco altro.

Si, basta pagare. E questo principio sempre di più viene sancito per legge e tramite “riforma”, come succede con l’egemonia attribuita a rendite e soggetti proprietari dalla Sblocca Italia, dal quadro ideologico cui si ispira l’Inbar, la legge urbanistica “dettata” da Lupi e prontamente raccolta dal governo anche in sua assenza per non nobili motivi. O dalla legge sul consumo di suolo, che da legge ambientale è diventata legge urbanistica anch’essa e che aspira, tramite deleghe e attribuzione di competenze irrealizzabili, a tutelare gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria, addirittura ripristinando, in quello che dovrebbe essere un quadro di norme a salvaguardia del territorio e dell’equilibrio ecologico, la priorità del riuso edilizio e della ristrutturazione urbanistica.

Basta pagare, ma a pagare non sono le bande del buco, siamo sempre noi. E’ ora di chiudere i cordoni della borsa e di riprenderci quello che è nostro.