imagesAnna Lombroso per il Simplicissimus

Non so a cosa dobbiamo l’esserci risparmiati il coretto “Milan l’è on gran Milan”, forse alla loro naturale compostezza, a quella severità laboriosa, a una proba indole al lavoro e al risparmio, in assenza delle quali i napoletani passano la vita a cantare O sole mio,  mangiando indolentemente spaghetti c’a a pummarola ‘ncoppa a spese nostre, come ebbe a osservare acutamente la ministra Fornero.  Per non dire dei romani, sudditi di qualsiasi papa re salga su soglio e trono, inguaribili parassiti, indifferenti e scioperati. Ah, naturalmente i siciliani sono tutti mafiosi, i calabresi schiavi della ‘ndrangheta che hanno cercato di esportare senza riuscirvi per via degli anticorpi e delle poderose difese immunitarie dell’operoso e onesto popolo lumbard. Dimenticavo: i genovesi sono talmente taccagni che non spendono nemmeno per risanare il loro territorio e difendersi dalle bombe d’acqua. Che altro? I vicentini “magnano i gati”, quelli del nord sono polentoni e quelli del Sud terroni.

Si sa che un ceto dirigente a corto di idee e ideali ricorre facilmente alla cassetta degli attrezzi sempre a portata di mano di pregiudizi e stereotipi. In questi ultimi anni la facondia grossolana di Berlusconi e dei suoi alleati, la severità sussiegosa di Monti, l’idiota tracotanza del giovane Ganassa hanno attinto a piene mani, per convincersi della bontà dei loro bocconi velenosi, dal Mezzogiorno in ritardo che deve rimboccarsi le maniche, a Roma ladrona, dall’accusa di essere un popolo dissipato che ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, a quella di essere gli artefici del dissesto del welfare per via di un  dissennato ricorso a Tac e di un impiego scapestrato di farmaci consigliati dalla zia, giù per li rami fino all’esaltazione delle belle famiglie italiane comprese di femminicidio, fino al meglio puttanieri che finocchi (sic), fino a “italiani” mammoni detto da una ministra che aveva appena collocato il core de mamma sua in invidiabile posizione professionale.

Non stupisce quindi l’esternazione odierna dello spaventapasseri anticorruzione, del babau pro legalità, insomma del presidente Cantone, napoletano d’origine,  che, insignito da un succedaneo dell’Ambrogino d’oro, il Sigillo della città, consegnato nelle sue mani dal sindaco, grato e compiaciuto ci ha informati che – si suppone anche grazie a lui, come d’altra parte ha riconosciuto Pisapia – Milano si è finalmente “riappropriata del ruolo di capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere”.

Non voglio nemmeno soffermarmi sul fatto che il motore di una tardiva ricomposizione delle antiche divisioni e differenze tra Nord e Sud, di quella distopica unità d’Italia che non è riuscita né col Risorgimento, né con la Resistenza, né col boom, è rappresentato da una diffusa inosservanza di regole, peraltro promossa per legge dal governo, da forme endemiche di illegalità, da corruzione, evasione, penetrazione della criminalità.

Nemmeno sulla considerazione che la definizione di capitale morale è una rivendicazione, una nomina autoreferenziale che potremmo facilmente smontare pensando appunto alla presenza malavitosa, ai locali nelle mani delle organizzazioni criminali, all’evasione fiscale, al tassista massacrato a botte, ai grilletti facili e alla giustizia fai da te, all’accettazione tramite consenso e annesso voto di principi riconducibili al razzismo e alla xenofobia. O, guardando alla storia recente, all’emarginazione dei meridionali, cui oggi segue a breve distanza un certo disappunto per l’arrivo di disperati che parlano lingue altrettanto indecifrabili per il meneghino, del siciliano o del calabrese.

Ma proprio per non essere come Cantone, è doveroso ricordare che sono mali condivisi, pregiudizi ben spartiti a tutte le latitudini, luoghi appunto comuni, che fanno da attaccapanni per appendere rancore, invidia, diffidenza, paura come abiti dei quali non sappiamo disfarci.

Ma invece sarà d’uopo ricordare presidente dell’Anticorruzione, che era stato appunto chiamato a mettere le mani su un bubbone purulento chiamato Expo, il cui primo commissario, il sindaco Pisapia era scappato dall’incarico a gambe levate per l’inanità dell’impresa, un capriccio comunque immorale, a parte le infiltrazioni criminali di mafie tradizionali o di cordate del cemento già attive in altri scandali, per via dei costi spropositati, della sua indubbia futilità, della scellerata dissipazione del suolo, dell’impatto ambientale di opere che già dal 31 ottobre verranno consegnate alla rovina, alla polvere, a un costoso oblio. O rammentargli che, per sua stessa ammissione, parte rilevante degli appalti opachi è stata “confermata” malgrado le inchieste in corso, per consentire il coronamento dell’opera tanto cara al governo, al suo norcino di fiducia, a speculatori che si sono distribuiti i bocconi succulenti delle grandi opere e anche di quelle più piccole.

Ci piacerebbe sapere che Milano vuole rivendicare un primato morale, grazie a imprese locali che fanno assunzioni trasparenti, artigiani che emettono fatture, contribuenti abbienti che pagano le tasse, enti che fermano il consumo di suolo e, perché no? cittadini che condannano il malaffare che anima scelte e decisioni dentro a quello stabile chiamato Pirellone, che sta proprio nel cuore della capitale morale e dove amministratori che hanno eletto approfittano del dolore di disabili, rubacchiano sulle note spese, parlano alle loro pance  di respingimenti e al tempo stesso le svuotano. Insomma proprio come succede più o meno in tutto il resto dell’immorale Italia.