imagesIeri la Camera bassa anzi bassissima, ovvero Montecitorio ha approvato una balzana legge sullo ius soli che in realtà è una specie di ius sanguinis ipocritamente nascosto, anzi ancor peggio una sorta di ius culturae contraddittorio e grottesco. Infatti ai bambini di genitori stranieri non basta nascere sul suolo nazionale per acquisirne, come accade in tutto il resto del mondo, la nazionalità, ma occorre che frequenti un ciclo di almeno cinque anni di studi presso il sistema scolastico nazionale. La xenofobia intrinseca di questo provvedimento, la discriminazione su base etno identitaria che istituisce è palese: ogni neonato da qualsiasi genitore sia nato è un vaso vuoto che va lentamente riempito, per cui alla nascita l’unico criterio valido, necessario ancorché insufficiente, è il luogo di nascita: quanto poi alla scuola essa è o dovrebbe essere obbligatoria per tutti, per cui non si comprende perché uno nato mettiamo a Secondigliano può essere italiano senza andare alla scuola dell’obbligo, può parlare in maniera incomprensibile al di là del circondario, essere addirittura analfabeta mentre uno nato nella stessa città, ma da genitori stranieri non può avere la cittadinanza nelle medesime condizioni. La legge sulla scuola dell’obbligo cui tutti dovrebbero adeguarsi è già sufficiente.

Mi rendo perfettamente conto che esistono problemi che possono aver spinto ad adottare questo provvedimento di per sé logico come un Minotauro, ma la cosa che proprio non funziona in questa sorta di ius culturae, spacciato per ius soli, la sua natura paradossale è proprio il fatto che la cultura a cui si dovrebbe fare riferimento è dichiarata ogni giorno di più inutile e negativa  rispetto all’omologazione mondiale del liberismo o al suo succedaneo europeista, il suo veicolo, ovvero la lingua, sostituita ogni giorno di più da un inglese coloniale con le università che fanno a gara per sostituirlo all’italiano, le sue peculiarità via via sostituite dalla logica mercatista globale. Cos’è questa cultura a cui il neonato straniero si dovrebbe adeguare? E’ forse il liberismo d’importazione e idiozia tutta americana che guida la grande campagna per la privatizzazione delle poste la quale inneggia al cambiamento in quanto tale, senza dire nulla in merito ad esso? E’ forse la fiera per startuppisti sgomitanti, secondo una filosofia che scambia il gadget per innovazione, il progresso per novità commerciale, il lavoro creativo per lotteria, ospitata non si sa bene perché alla Sapienza rendendo necessaria la sua completa chiusura per tre giorni? E dire che il numero e la potenza degli sponsor che vanno da Microsoft a Google, da Citroen, Eni, Acea, Bnl, Ibm, Cisco, postepay e sono solo alcuni, potevano anche trovare una sede più acconcia senza dover chiudere un’intera università, biblioteche comprese, tanto più che si pagano 10 euro per l’ingresso. A questo punto sarebbe da domandarsi chi ci guadagna, chi incassa e quanto. Ma questo non si conosce ed è l’unica sfumatura veramente italiana in questo tronfio bailamme che finora negli Usa ha prodotto qualcosa come 39 mila fallimenti fino a che ci sono stati i quantitative easing. E dire che sarebbe anche interessante se non si scambiasse questa cosa per innovazione e per il calco del futuro che consiste nel lavorare gratis in vista di essere fra lo 0,000001  di quelli che ce la fanno.

Sono solo esempi di giornata di un’omologazione voluta e cercata a tutti i costi, spesso nei modi più passivi, servili e ingenui, cui si contrappone in maniera stravagante e ipocrita una sorta di ius culturae altrimenti esorcizzata. Quelli che si fanno entusiasticamente sradicare dalla loro soggettività culturale non in nome di un’universalità kantiana, ma commerciale, pretendono che essa sia delibata da chi viene da altrove. Se poi ci prenderemo qualche sonoro e storico vaffa non ci possiamo meravigliare.