Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è da sospettare che uno dei caratteri della nostra autobiografia nazionale consista nel repentino passaggio da cronaca a oblio, senza transitare nella storia. È successo sempre, ma mi limito a citare il secolo breve: marcia su Roma, imprese coloniali, leggi razziali, fascismo ladro e corrotto, guerra sanguinosa, sospensione della giustizia ai fini di una finta pacificazione, costituzione inapplicata,  e a ripetere all’infinito regimi ladri e corrotti, partecipazione a guerre sanguinose, sospensione  della giustizia in favore di leggi ad personam, Costituzione prima disattesa poi stracciata.

Succede che il ricordo a fini storici venga cancellato o perpetuato tramite giornate e commemorazioni annuali, in modo d dimenticare tutti gli altri giorni, o attraverso monumenti, tirati giù con violenza dai piedistalli o eretti come quello al macellaio Graziani approvato da una giunta di centro sinistra e ci si augura sospeso, o la casa del fascio a Predappio promossa a oneroso quanto indispensabile sacrario della conoscenza storica.

Leader nel bene e nel male, a meno che non dimostrino una certa inclinazione immortalità come successe con Andreotti, dirigenti politici autori di svolte storiche, ladroni e santi, criminali e maestri di vita durano poco nell’immaginario, giusto il tempo di schierarsi per sentirsi a posto, in linea con varie topologie conformismo e ad ondate più o meno consolidate di pensiero comune e via, pronti per l’almanacco, per i supplementi illustrati dei quotidiani e dei settimanali e che ogni anno regalano le foto già ingiallite nella nostra testa del recente passato e che sfogliamo con sorpresa.

Succederà anche a quello che ormai universalmente viene definito il “povero Marino” e che in qualità di vittima, che è giusto riconoscergli anche per quando riguarda il suo personale contributo al sacrificio umano, spera di guadagnarsi una fettina di immortalità lanciando minacce per niente trasversali di tirar giù tutti, come sempre fanno i sansoni piccoli o grandi – e francamente veder crollare un po’ di filistei non spiace a nessuno.

La cronaca adesso gli regala titoli di testa e notorietà, gode di un consenso ineguagliato nella sua sorprendente carriera politica, è osannato da fan e premiato da petizioni, ma non ha la tempra – e questo gli va riconosciuto, per restare in sella malgrado il cavallo sia caduto giù dal piedistallo, non verrà chiamato in futuro a Porta a Porta, all’Aria che tira, a Piazza Pulita, a Otto e mezzo insieme a sinistri figuri che hanno devastato come unni le nostre esistenze, il lavoro, i territori, le speranze e che vengono invitati in qualità di tecnici dell’austerità, di fautori sia pure obsoleti del golpe in corso, che poi sono quelle ormai le uniche concessioni al ricordo, riproporci le facce della nostra rovina, cui dobbiamo assuefarci come a una patologia cronica.

È successo per Craxi, l’unico per il quale si sia applicato il teorema che da lui ha preso nome, visto che adesso si può essere presidenti di regione,m sindaci, premier senza sapere nulla degli illeciti commessi dai propri assessori, collaboratori etc. In fondo è successo perfino a Berlusconi, dagli altari alla polvere, resta in vita grazie ai custodi della sua sporca ideologia di maneggione e in virtù dei suoi eredi che stanno coronando le sue imprese con ancora superiore grado di accondiscendenza a padroni interni ed esterni. E che qualche volta viene riesumato appunto in forma di monumento, magari del nemico, così da imprimere l’immagine di ritrovata unità, di sessismo, celebrato nelle aule parlamentari, di imprenditore tanto disinvolto e dedito all’illecito reso legittimo, da trovare emuli perfino oltre oceano.

È che a noi non piace la storia, ed è probabile che la buona scuola provvederà a cancellarla   dalle materie di insegnamento, perché costringe a fare i conti con le responsabilità, anche quelle personali, con la ragione oltre che con le passioni, a esprimere  giudizi oltre che pregiudizi, a guardare a eventi passati e ai loro effetti, inducendo rimpianti, rimorsi, pentimenti, autocritica, tutti sensi e sentimenti cui è preferibile sottrarsi per sopravvivere.

E siccome  la cronaca a differenza dell’angelo della storia,  non cammina con la testa girata all’indietro ci si può esporre nell’immediato, far parte di tifoserie effimere nutrite dalla dimenticanza a dalla rimozione di quello che si è pensato, compiuto, accettato o respinto, voluto o sopportato.

Così nel caso attuale diventa tutto legittimo e tutto credibile: che la pressione per destituire Marino, pur favorita da una sua caratterialità e  dal reiterarsi di leggerezza,  nasconda la pervicace volontà di far fuori un soggetto disturbante e indi­spo­sto ad assoggettarsi a quei poteri forti, criminali e autoritari, in modo che possano agire  e fiorire indisturbati  dalla «poli­tica», dai mass media, dalle alte sfere vaticane. E altrettanto che sia invece l’ultimo atto della parabola triste di un uomo ambizioso “prestatosi” alla politica e all’amministrazione di una città complessa e che non ha saputo ad un tempo rispondere alle aspettative dei capibastoni e a quelle dei romani. A quelle spesso perverse dei suoi sponsor –  ricordo quanto in realtà si spese il Pd, Bettini, Bersani che lo caldeggia con un “signor sindaco del cambiamento”, Madia pronta a rinnovare fiducia nel caso di una seconda candidatura al chirurgo che risana Roma, Bianco che lo omaggia come esemplare unico di integrità, perfino Renzi immortalato ai Fori nel selfie del partito dei sindaci , Boschi che ribadisce: Marino deve restare – alle quali tanto ha tenuto, se in recenti occasioni aveva riconfermato che la sua priorità era  avere il consenso e l’appoggio del premier,  ribadendo il nucleo centrale del suo insuccesso,  la lontananza incolmabile dalla città. E appunto a quelle dei cittadini, delusi o scettici di vecchio corso, colpiti comunque dal ripetersi su scala locale della tossicità delle politiche di austerità, quindi dai tagli ai servizi pubblica, all’assistenza, penalizzati anche dalla fine per molti di quelle compensazioni non sempre legali, mai lecite che hanno prosperato proverbialmente nella capitale: le mezze sòle, impiegati pubblici con doppi lavori, clientelismo, favoritismo, familismo, e che si possono tranquillamente attribuire al succedersi degli ultimi sindaci, che non a caso qui si dice che er più pulito c’ha la rogna.

Ma il gusto della commedia, dei suoi retroscena  e delle sue maschere, fa preferire l’incollerita denuncia del complotto con i veleni negli anelli, come nella cena delle beffe, i coltelli con la lama che rientra e le spade di legno, la rappresentazione dell’eterno conflitto tra Davide innocente e Golia feroce, quando le vittime di un gioco delle parti tra affini mossi dai medesimi interessi, che non sono i nostri, sono i cittadini.

Così perde vigore denunciare l’assenza di una politica per la città, la conversione dell’urbanistica in pratica di concertazione con rendite e speculatori   o in scienza del controllo sociale, la chiusura mai abbastanza precoce di una discarica senza accelerare il negoziato con gli altri attori interessati per una soluzione alternativa che non sia l’onerosa emigrazione dei rifiuti, l’azzeramento benedetto dei vertici di aziende sleali ridotta a beau geste estemporaneo, la riduzione delle linee che collegano quelle periferie infiammabili nelle quali ci si affaccia una tantum, segnate dalle guerre fratricide alimentata dai fascisti, la vaghezza legalitaria sul problema delle case occupate, oggetto di scrupolose liste e del lavoro di commissioni dall’infinita attività di rilevazione,   la chiusura di teatri e cinema, la conferma di scelte irragionevoli e scriteriate: stadio della Roma a Tor Vergata, Candidatura alle Olimpiadi,  la cautela nella riduzione degli spazi edificabili, la svendita di are e immobili preziosi , il nulla seguito alla pubblicazione degli elenchi degli affitti passivi che il Comune paga, e poi le buche, gli alberi che cadono come il soffitto della metro, i Fori pedonalizzati ma che si allagano a ogni temporale, i viaggi da piazzista dei primi cittadini e non perché le gite costano all’erario, ma perché prefigurano la liquidazione di beni comuni. Perché finisce per essere fatto rientrare nella logica del complotto, del linciaggio, della macchinazione, del capro espiatorio, ruolo toc­cato al mal­de­stro e imprudente Marino sulle cui spalle sono state fatte cadere tutte le respon­sa­bi­lità di un disa­stroso declino delle con­di­zioni urbane di Roma che per­dura  da anni, e che pur avendo accettato l’imposizione di assessori e papi neri, badanti prefettizie, sorveglianti ha sempre rivendicato l’autonomia da lobby e da consorterie politiche.

Ma non è che in altre grandi città ita­liane, gover­nate da sin­daci eletti fuori dalle cerchie partitiche e per espressa volontà popo­lare, come Doria a Genova, Pisa­pia a Milano, De Magi­stris a Napoli, le cose  vadano  molto diver­sa­mente, tanto che è più che lecito chie­dersi se il declino  delle grandi città non sia piut­to­sto da ricer­care ben più in alto o ben più in pro­fon­dità, se la loro contaminazione dalla speculazione, dalla corruzione, dalla criminalità non richieda la stessa ricetta necessaria al Paese, il cambiamento che non è l’avvicendamento di sindaci o premier più o meno popolari, più o meno attenti all’interesse generale, più o meno spacconi. Bensì un progetto  alternativo vero che richiede una coalizione sociale  per un governo della città, che si apra ad una demo­cra­zia pub­blica fon­data sulla par­te­ci­pa­zione delle comu­nità locali e dei quar­tieri, con il consolidarsi di nuove isti­tu­zioni di pros­si­mità che sap­piano inter­pre­tare e rap­pre­sen­tare il biso­gno di sicu­rezza, di soli­da­rietà,  con il nutrimento a quegli organismi, quelli che Renzi chiama con disprezzo comitatini, ma che esprimono invece e testimoniano la determinazione a contare sulle scelte e le decisioni che riguardano il posto in cui vivono.

Ma per questo occorre scendere dagli spalti, smettere di essere ultras, diventare cittadini.