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Fallimento, l’ultimo “bene comune”

imageAnna Lombroso per il Simplicissimus

“Azione speculativa illecita volta a provocare variazioni artificiose dei prezzi delle merci al fine di ricavarne un rapido e grande profitto”. O anche: “delitto commesso da chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione di strumenti non quotati, né in corso di quotazione (art. 2637 c.c.). Qualora le condotte indicate abbiano ad oggetto strumenti quotati o in corso di quotazione si configura la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 del d. lgs. n. 58/1998 (Testo unico finanziario)”.

Deve averla fatta proprio grossa il vertice della Banca popolare di Vicenza (700 sportelli da Nord a Sud, 120mila soci, 5.500 dipendenti,  molte ombre sulla gestione tanto che dal dicembre 2014 è passata sotto il controllo della Bce)  se la principale accusa mossa agli indagati per lo scandalo, scoperchiato con non sorprendente ritardo, riguarda un reato – l’aggiotaggio – che sa di antico come l’abigeato, quando  azioni che lo configurano vengono compiute da decenni alla luce del sole, favorite da stati, organi di controllo, agenzie di rating, sdoganate da “studiosi” e economisti,  legittimate da provvedimento eccezionali finalizzati al salvataggio di istituti di credito o da misure indirizzate a dare liceità a speculazioni e transazioni opache, praticate da governi, enti locali, in una commistione e integrazione perversa con i sacerdoti della finanza, o meglio con gli illusionisti e i bari del  suo gioco d’azzardo.  Però c’è anche l’accusa di sottrazione alla vigilanza, colpa grave, quella sì,  che ha richiesto da più di un anno  l’intervento  del cane da guardia europeo,  e che probabilmente costituisce il vero crimine economico,  ipotizzando che un banchiere abbia deciso di farsi gli affari suoi con una partita di giro grazie alla quale gli stessi azionisti hanno comprato azioni della banca,   per giunta perdendoci un grosso malloppo che ha costretto il management a chiedere ai soci tre miliardi per ricapitalizzare,  e cercando una tardiva redenzione grazie all’entrata in campo di  un salvifico consorzio di collocamento con 5 joint global coordinator: BNP Paribas, Deutsche Bank AG, London Branch, J.P. Morgan, Mediobanca e  UniCredit.

D’altra parte nello spazio immateriale della finanziarizzazione, nel suo grande casinò globale sono i signori del credito a farla da padrone, quelli delle banche ma anche quelli di una rete sempre più estesa e sempre più opaca, rappresentata dall’accesso diretto,  di imprese, azionariati, consumatori,  al mercato finanziario, mediante una serie di strumenti gestiti da un sistema “ombra” aggressivo fino al crimine, di intermediari,   che si valuta ormai grande come quello bancario e che con esso  interagisce, perché  ambedue si sono liberati da vincoli, leggi, regole e perché sono parimenti dotati di una vita eterna, grazie al moto perpetuo di debiti nuovi che saldano i debiti scaduti.

Però le banche non falliscono, falliscono i risparmiatori, magari  falliscono gli stati e i comuni,  che frequentano la bisca finanziaria a farsi spennare attratti da guadagni facili e persuasi da biscazzieri  affini, amici, ben vestiti, dai modi disinvolti degli uomini di mondo. Stato, comuni ci sono andati per puntare sui derivati per esempio, prodotti finanziario il cui prezzo “deriva” dal valore di qualcos’altro di immateriale e nascosto, il cosiddetto “sottostante”, che potrebbe essere il prezzo del greggio, del rame, o un tasso di interesse, o un indice azionario, valutario, o quello di un’obbligazione. E quello che investe il giocatore illudendosi di avere entrate immediate senza fatica, altro non è che una scommessa rischiosa, che come sempre succede nelle sale da gioco, favorisce la roulette e premia il banco. Così non ha stupito, ma nemmeno ha avuto grande eco la notizia riportata dal Sole 24 Ore in aprile secondo il quale nei primi mesi del 2012, il ministero dell’Economia aveva pagato all’esattore del casinò, in questo caso  Morgan Stanley, la somma non irrisoria di  oltre  3  miliardi di euro,   che il buco dei derivati  potrebbe assommare a 42,06 miliardi di euro, e che le perdite reali già subite nel quadriennio 2011-2014 ammontano a 16,9 miliardi, tanto che senza la corsa dissennata alle scommesse legali “nel 2014 il debito pubblico sarebbe stato di 5,5 miliardi più basso”.

Eh si possono fallire Stati, esautorati e espropriati della sovranità, e comuni al tracollo per via di nodi scorsoi e  incompetenza. Ma le banche si salvano, si salverà anche la Banca di Vicenza come è successo per il Monte dei Paschi, si salvano malgrado evidente incapacità, spericolata indole alla speculazione più trucida, licenza totale di “deviare” dalla mission di essere al servizio dei risparmiatori, come possono fare i soggetti interamente privati, che possono sfuggire a sorveglianza e controllo dello Stato, ridotto a onlus, ente benefico cui ricorrere in condizioni di emergenza, se siamo l’unico paese europeo nel quale lo Stato non ha mai voluto – o potuto? – entrare nel capitale degli istituti in crisi. A cominciare dal fallimento sfiorato di Unicredit, quando governo e opposizione levarono gli scudi contro un ingresso pubblico   nel capitale della banca. No, perché l’ingegnoso sistema in vigore prevede che invece lo Stato impegni risorse nostre socializzando  le perdite, destinando  a più riprese prestiti sotto forma di bond : i Tremonti bond e i Monti bond, addirittura imponendo per legge nel decreto  «Salva Italia» la garanzia dello Stato italiano su tutte le obbligazioni bancarie di nuova emissione. Che tradotto per noi diventati tutti cattivi pagatori, significa che se una banca fallisce, i suoi sottoscrittori di titoli di credito  potranno ricevere dallo Stato italiano il corrispettivo del danaro a suo tempo investito in obbligazioni di quella banca.

Così l’unico bene comune che resta inviolato è il fallimento. Ne spetta una fettina a tutti noi, neonati compresi, proprio come il debito pubblico, quindi non lamentatevi di essere nullatenenti.

 

 

 

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