terminator-450x600Nelle settimane e mesi scorsi mi sono chiesto quali interessi nazionali stesse difendendo il nazionalista Orban con la costruzione di muri contro i migranti il cui ultimo pensiero al mondo poteva essere quello di fermarsi in Ungheria. A parte la solita assenza dell’Europa che ha sempre grottescamente tollerato con una sorta di silenzio assenso il regime autoritario e marcatamente sciovinista di questo personaggio, non c’era alcuna ragione concreta per una posizione così ottusa  e così visibile grazie ai muri.

Forse mi sono detto questo rifletteva una debolezza interna da superare attraverso una sgangherata narrazione di difesa del suolo nazionale, agitando la minaccia dello straniero e dell’alieno per far presa sulla larga fascia di elettorato che non va alle urne. Ma francamente la cosa è talmente eccessiva da poter facilmente avere l’effetto contrario: Orban ha ancora tre anni pieni di potere visto che le prossime elezioni ci saranno nel 2018 e una simile tensione ha bisogno di essere mantenuta a lungo per poter essere efficace. Troppo a lungo per non rischiare di essere anche controproducente e far risaltare alla fine solo l’isolamento dell’Ungheria. Cosa ancor più evidente dopo i feriti dei giorni scorsi.

Per questo propendo per un’altra ipotesi, ovvero il gioco delle parti: Berlino che di fatto ha colonizzato il Paese con le sue industrie delocalizzate, può prendersi il merito dell’accoglienza senza condizioni, avendo però  una comoda valvola di afflusso esterna che può aprire e chiudere a comando, influenzando a catena tutta la filiera che passa per Serbia e Macedonia. Infatti dopo una prima apertura sufficiente alla Merkel per accreditarsi universalmente come cancelliera umanitaria (leggi qui), ecco che il muro si è richiuso ed è di nuovo in servizio effettivo.

Non ho alcuna prova per sostenere questa tesi se non la figura stessa di Orban e la convinzione che le oligarchie globali tentino in qualche modo di gestire per i propri interessi le migrazioni causate dalla loro stessa avidità e creazione di caos. Il leader ungherese è infatti tutt’altro che un autoctono sarmatico, dal punto di vista culturale intendo, ma è una scheggia impazzita prodotta dal liberismo rampante degli anni ’90, l’ambiente con il quale ha tutt’ora fortissimi legami. Nell’1989, grazie a una borsa di studio della fondazione Soros, va a prendersi un master ad Oxford e l’anno dopo viene magicamente eletto nel Parlamento di Budapest; nel ’92 diviene leader di Fidesz, il partito conservatore che è tutt’oggi la prima forza politica del Paese; nel ’98 ascende per la prima volta al governo e in piena vicenda balcanica fa entrare l’Ungheria nella Nato; nel 2001 viene convocato da Bush e accetta di partecipare alla guerra infinita in Afganistan, in maniera così entusiasta  da essere premiato da due organizzazioni parallele della Nato,  la New Atlantic initiative e l’ American enterprise institute. In seguito perde due elezioni consecutive vinte dai socialisti e torna al potere nel 2010. Qui inizia una seconda vita segnata dal rifiuto di entrare nell’euro, dalle rinazionalizzazioni  (in particolare quella della banca centrale) e l’instaurazione di un regime autoritario con una legge elettorale liberticida e una Costituzione che addirittura occhieggia alla monarchia e fa riferimento esplicito a vaste rivendicazioni territoriali.

Ora si dirà che questa frattura rispetto alle linee liberiste di Bruxelles e dell’Fmi gli dovrebbe aver alienato gli ambienti atlantisti e quelli dei Chicago boys, anche se le previsioni di disastro economico preannunciate dai soloni economici non solo non si sono realizzate, ma l’Ungheria è uno dei Paesi del continente in cui c’è stata una crescita effettiva e non solo numerica. Però non è così: l’autoritarismo piace istintivamente alle elites economico – finanziarie e ai strumenti mediatici e militari: in realtà esse si sentono minacciate proprio dalla democrazia  al punto che non perdono occasione di umiliarla, ridurla, disfarla, salvo esportarne lo scalpo spolpato come feticcio da utilizzare nelle guerre del caos. Poco importa che Orban sia deviante rispetto a teorie i cui presupposti  – la crescita infinita, la massima retribuzione del capitale senza alcun onere sociale, la messa in mora dei diritti e della solidarietà – richiedono lo sfascio della cittadinanza e il dispotismo per essere perseguiti oltre un certo limite. Le teorie economiche sono semplici artefatti intellettuali per alludere e nascondere allo stesso tempo la pulsione verso una società diseguale e non libera, senza la quale le contraddizioni esploderebbero e gli oligarchi si vedrebbero destituiti.

Dunque meglio chiudere un occhio sull’eresia di Orban se raggiunge lo scopo anche senza congiungere le mani a tutte le  preghiere collettive del mercato: prova ne sia che Bruxelles non ha detto e soprattutto fatto nulla per contestare una costituzione che è l’esatto contrario dei suoi presunti principi costitutivi. Anzi a lui può essere lasciato il lavoro sporco come nel caso dei migranti e per di più costituire uno specchietto per le allodole delle false alternative al governo del mercato.