Anna Lombroso per il Simplicissimus

Farò come interessati, coinvolti, opinionisti. Farò come se questa seconda fase dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo, con la reiterata emersione pubblica  di un fondale sommerso e avvelenato, fosse una bomba scoppiata a sorpresa, tanto che c’è da sospettare che quelli che non erano ancora stati tradotti a Rebibbia, quelli solo mezzi avvisati, quelli soltanto indagati abbiano continuato per un po’ a raccattare le ultime briciole, sistemare le ultime ragazze, lucrare sugli ultimi provvidenziali disperati.

Farò come i dirigenti e gli eletti del partitone della nazione, sconcertati per gli inattesi sviluppi, ancorché molto annunciati, che si auguravano forse che l’inchiesta si fosse  aggiustata sul comodo materasso delle lungaggini giudiziarie in attesa di un eterno riposo tramite prescrizione, fiduciosi che lo scandalo dopo sei mesi fosse stato assorbito pronto a diventare tema di uno sceneggiato di Raiset, tanto è vero che vigeva un pudico silenzio su Marino canonizzato messo là a officiare i riti del prossimo Giubileo in un Comune che potrebbe o meglio dovrebbe essere sciolto, con l’ipotesi non remota che non si veda la differenza vista la inefficienza, l’impotenza, l’incompetenza dimostrate.

Così mi concedo anche io qualche osservazione estemporanea. A cominciare da quel carattere “paesano” della cupola, confermato dallo stile delle intercettazioni, cui manca la gara di rutti e quella di chi piscia più lontano, una volta esaurita quella su chi ce l’ha più lungo, dall’impiego di un vernacolo che fa rimpiangere il Monnezza, per via di quella sindrome di  Tourette che affligge ragazzini problematici, adulti mal cresciuti e un personale politico selezionato tra i più brutti, sporchi e cattivi. E che malgrado la circolazione di molti soldi, l’abiezione del brand scelto per fare la grana, l’ampia cerchia di politici e amministratori soggiogati, manipolati, favoriti e prezzolati, il ricorso a metodi di intimidazione mutuati dalla  malavita, le cifre che attaccano  all’associazione a delinquere l’etichetta di organizzazione mafiosa, malgrado tutto questo non ha la oscena grandezza di altre alleanze criminali, che, in assenza di un Pignatone – magistrati locali influenti sono distratti da altre carriere –  non hanno avuto il riconoscimento, il marchio doc dell’appartenenza al sistema mafioso, ma che hanno esercitato una geometrica potenza, intridendo tutto il sistema sociale e economico di intere geografie, Mose, Tav, Expo, l’Aquila.

Perché la differenza sta nel fatto, ignobile finché si vuole, immorale finché si vuole, dissoluto finché si vuole, che, sia pure con grande sperpero di denaro pubblico mobilitato nella speculazione e nello sfruttamento di condannati alla dannazione eterna della miseria e dell’umiliazione,  mancano nel mondo di mezzo ben altri speculatori, ben altri sfruttatori, quelli del cemento, della rendita immobiliare, del sacco del territorio, di mega appalti truccati, delle emergenze abitative sempre riprodotte, delle Metro C, dello scavo dei canali, delle opere di “salvaguardia” e di ricostruzione, fatte per salvare profitti illeciti e ricostruire monumenti alla corruzione, impegnati in altre operazioni di formidabile portata e probabilmente compiaciuti della polvere negli occhi dietro la quale proseguono indisturbati nei loro formidabili  business.

Contenti loro e contenti i sacerdoti delle ideologie messi a tutelare i loro interessi. Quelli che a margine della riprovazione e del biasimo possono con soddisfazione  ripetere  la narrazione mediatica mirata a denunciare i vizi del sistema pubblico amministrativo,  di quello statale, contrapposti alle virtù della  gestione privata. Come se non ne fossero testimonial molto rappresentative le cooperative, organismi del terzo settore, agenzie, onlus, in prima linea nel battere la concorrenza usando tutti gli espedienti della slealtà commerciale  e tutte le  forme di controllo e di condizionamento del “mercato”, aggiudicandosi in regime di monopolio il brand dell’assistenza sociale a migranti e rom,  la manutenzione delle strade e dei parchi pubblici,  i servizi di pulizia degli enti pubblici, la raccolta dei rifiuti,  il “governo” dell’emergenza abitativa, grazie ad incarichi e appalti che ad un tempo peggiorano la qualità della vita di tutti e, aumentando i costi, incrementano il debito pubblico di città già strangolate.

Manovalanza di alto e basso livello, unita dal collante della corruzione, aveva ed ha tutto l’interesse a consolidare all’infinito qualsiasi situazione di crisi, per poter applicare quella cultura dell’emergenza che consente deregulation, regimi eccezionali, poteri speciali, licenze e deroghe. Ma anche per rispondere a un bisogno che riaffiora in tutte le intercettazioni, quello di assicurarsi un reddito fisso, una paghetta certa e regolare. Quelli che hanno fatto della mobilità dinamica, della flessibilità creativa, le loro parole d’ordine, quelli che hanno cancellato insieme al lavoro diritti e garanzie,   preferendo forme parassitarie erogate secondo criteri arbitrari, convertendo in elargizioni prerogative e  conquiste, li abbiamo visti là, come a suo tempo Ichino, preoccupati del loro futuro di precari d’oro condizionati dai capricci di un elettorato, fortunatamente, ma non abbastanza, reso marginale da leggi e riforme, a supplicare e piatire un posto fisso, un salario garantito, un radioso e certo 27 del mese a nostre spese, improvvisamente umili, gravi, seri, tra tante gomitate, battute salaci e risate, che purtroppo non li hanno seppelliti.