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Il Paese di carta

104607La carta è un materiale affascinante, ma purtroppo poco adatto alle costruzioni: si bagna ed è subito fradicia, si incendia e va subito in fumo. Così è inevitabile che tutti i lavori i quali tra i loro materiali annoverano la cartaccia di mazzette, favori, scambi opachi, abbiano un’ intrinseca debolezza: possono incendiarsi come a Fiumicino o far piovere dentro come a Malpensa. E questo proprio nei primi giorni in cui il glorioso Expo dovrebbe mostrare al mondo il volto dell’Italia moderna.

Il risultato è che arriva un giornalista del New York Times a farsi un giro attraverso un’esposizione universale trasformata in pura kermesse culinaria e scrive che l’Italia è indietro di trent’anni. Nulla di che, è solo il tipico cretino usa che va in giro trafitto da cliché un po’ ridicoli e impolverati come un San Sebastiano dell’american dream. Robaccia che dimostra come nulla sia cambiato in mezzo secolo dall’altra parte dell’Atlantico e che l’idea di modernità degli sciocchi non solo è povera, ma ormai vittima di cecità galoppante.

Però è vero che l’impressione restituita dall’expo è desolante, assai più delle banali notazioni del cronista: quando ci si trova di fronte all’accozzaglia di padiglioni – ristoranti si avverte lancinante la mancanza di un’idea, di uno scopo, di uno slancio e diventa anche chiara la mancanza di buona fede e di sincerità nell’organizzare la kermesse. L’obiettivo non era certo quello di aprire una discussione sull’alimentazione, sulle sostenibilità agricole, sul depauperamento della fauna ittica, su ogm e coltivazioni biologiche, su proprietà delle sementi: tutto questo che costituisce il cuore di nutrire il pianeta non esiste o è relegato in qualche angolo e delegato alle multinazionali.

Insomma ciò che si avverte con desolante chiarezza è ciò che il Paese ha davvero esposto all’attenzione e in qualche modo al ludibrio del mondo: la sua mancanza di ambizione e di idee, il suo tirare a campare con gli affarucci dei Farinetti, il risolvere tutto dentro l’estetica fasulla del cartongesso, il fatto di aver voluto mettere in piedi una manifestazione universale con in mente solo il piccolo particulare degli affari opachi. Non è la mancanza di una presunta modernità delle navette  o del bancomat rotto (ma gli americani lo hanno avuto dopo dieci anni rispetto a noi) e men che meno i fumi di manifestazioni che possono turbare un’anima morta: tutto questo è la traduzione in pidgin american di una cosa diversa, ossia del fatto che siamo un Paese che ha ormai cosi poco da dire da riuscire sempre ad assomigliare agli stereotipi che gli pesano sul collo. E di questo l’expo è un’ineguagliabile testimone quanto a corruzione, approssimazione, modestia, futilità. Ci manca solo il mandolino.

Non saranno le centinaia di milioni pubblici buttati per qualcosa che è poco più di un  trompe l’oeil destinato a vivere appena sei mesi, l’assenza di un progetto complessivo, la corruttela che pare l’umami della manifestazione e nemmeno i risultati più che modesti che si annunciano in termini di visite, a decretare il fallimento dell’expo, ma è il vuoto totale che circonda l’impresa e che diventa clamoroso di fronte ai pena dei media, alle offerte ossessive di biglietti scontati o gratuiti , al tentativo di far numero persino con le scolaresche. Non è che sia difficile comunicare il significato dell’expo o che al fallimento di questi conati comunicativi abbiano contribuito il fantastico sito Verybello, le cialtronate compiute in rete, la spoglia app dedicata, le foto grottesche. E’ che proprio non c’è nulla da dire. Così come accade per tutte le grandi opere pensate senza una strategia, senza un futuro, l’interesse viene meno una volta esaurito lo scopo principale che è poi quello di accontentare i voraci appetiti della classe dirigente. Dopo non gliene frega più niente a nessuno e di fatto una volta esaurito l’appuntamento delle regionali, non ci sarà nessun interesse a pompare più di tanto l’Expo. Qualcuno si è fatto i soldi grossi, qualcun  altro raccoglierà i piccioli che cadono dal tavolo, molti si fregheranno le mani per il modello di lavoro che si è imposto con la scusa dell’urgenza di finire l’impresa. E resteranno sole le stoviglie da lavare.

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