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Expo: presi a pizze in faccia dai padroni del cibo

downloadE’ probabile che molti abbiano visto lo spot: una famigliola si trova in pizzeria e quando il cameriere chiede al  pargolo che pizza vuole, quello risponde Happy meal, vale a dire uno dei menù di McDonald, spiegando che i bambini sanno ciò che è buono e non si curano dei residui culturali degli adulti legati a cibi arcaici come la pizza.

E’ uno dei primi effetti Expo di cui McDonald è uno dei grandi sponsor ufficiali assieme alla Coca Cola e alle grandi multinazionali agroalimentari protagoniste pressoché uniche della tribuna di discussione in quella che ormai appare non come un’esposizione universale, ma come una sorta di sagra culinaria di massa. Altro che piccoli produttori ed eccellenze di nicchia, come recita una parallela retorica, altro che valorizzare il territorio e le diverse culture del cibo, altro che chilometri zero, altro che nutrire il pianeta: lo spazio viene dato al prodotto globale standardizzato e omologato. Qui non si tratta affatto di difendere la tradizione italiana o la pizza in sé che del resto è già un cibo globalizzato e nemmeno una presunta correttezza alimentare spesso sostenuta con stereotipi uguali e contrari. Si tratta invece di difendere un’idea di cibo non radicalmente industrializzabile, diverso da territorio a territorio se non da pizzaiolo a pizzaiolo, molto più facilmente adattabile alle diverse culture e interpretabile in infiniti modi. Dunque anche un’idea più realistica, multipolare e flessibile di attività economia che contrasta completamente con la filosofia di base delle catene di fast food.

Certo la McDonald fa pubblicità badando ai propri interessi e alle proprie esigenze, ma l’idea di farlo andando in rotta di collisione con la pizza nasce dagli oscuri istinti omologatori della cultura liberista, del cibo visto esclusivamente sotto il punto di vista del profitto e che non tollera nessun altra idea. Un’alimentazione standard, derivante da coltivazioni standard, cucinato secondo precisi standard permette molte economie di scala, alti profitti e anche la nascita di un proletariato della nutrizione: per formare un “cuoco” di McDonald ci vogliono tre giorni compresa la preparazione da sguattero e quella per le pubbliche relazioni: non ha che da scongelare i prodotti e metterli sulla piastra o in friggitrice per un tempo stabilito, contare le olive in quelle tristi insalate e poco più. Si trasforma in un precario della polpetta, mal pagato, schiavizzato e con l’unica prospettiva di carriera affidata alla sua disponibilità a diventare un kapò . Questo non è più cibo è food, nel senso proprio di una parola che deriva dal protogermanica fodon e che in inglese ha dato anche la variante fuel, carburante (vedi nota *).

Si vede benissimo che l’Expo nato nell’illusione di rilanciare l’Italia proprio nell’unico campo in cui non ne ha bisogno, preparato con approssimazione e leggerezza, tanto ciò che contava erano i business opachi del solito milieu politico affaristico , si avvia ad esaltare l’esatto contrario di ciò che si voleva portare in primo piano e per giunta a mortificare la nostra tradizione alimentare. Anche se Farinetti e compagnia con la loro narrazione acchiappacitrulli di cibo griffato per benestanti faranno un sacco di soldi sulle spalle del pubblico erario, tutto sarà in mano ai grandi manipolatori globali del settore, quelli che dal seme brevettato arrivano alla polpetta con il copyright. Insomma un’anticipazione della colonizzazione totale che ci sarà con trattato transatlantico.

Così  a parte i palesi ritardi organizzativi che saranno visibili a tutti, a parte il lavoro gratuito, a parte gli scandali di cui tutto il mondo è a conoscenza, questa gigantesca sagra della tangente, rischia di appannare anche dal punto di vista culinario l’immagine italiana. McDonald non è l’inizio, un sintomo che le multinazionali dell’alimentazione si preparano a dare battaglia e prenderci a pizze in faccia.

 

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