Anna Lombroso per il Simplicissimus

Cinici e bari si susseguono al governo. Uno favoleggiava di aerei di vacanzieri che sorvolavano i nostri cieli e di ristoranti pieni. Questo, il gradasso da esportazione,  ha scelto il Parlamento europeo per raccontare di famiglie italiane che si arricchiscono.

Beh, stavolta non aveva del tutto torto: ci fa sapere un “approfondimento” di Repubblica che la crisi ha fatto “raddoppiare il patrimonio alle dieci famiglie più ricche di 20 milioni di italiani”, come in maniera ambigua dice la Banca d’Italia per attutire l’impatto della straordinaria accumulazione dei super ricchi.

“Dal 2008 l’Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell’accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni”. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, le informazioni del quotidiano sono state  tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes. La cui lista farebbe intendere che   sono usciti dalla hit parade i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Mentre sarebbe in crescita accelerata invece il patrimonio di produttori industriali dediti all’export, dal settore alimentare (i Ferrero o i Perfetti), dalla moda e lusso (Del Vecchio di Luxottica, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, Renzo Rosso), alla farmaceutica e all’industria ad alto contenuto tecnologico (Stefano Pessina o i Rocca di Techint). Insomma, secondo Repubblica, uscirebbero dalla cima della lista investitori finanziari-immobiliari come Caltagirone o chi in passato ha puntato troppo sulle banche.

Non c’è da essere proprio sicuri di questa interpretazione incoraggiante, che fa intravvedere l’esistenza di una imprenditoria dinamica,   che investe  sulle produzioni e sulla circolazione dei beni piuttosto che scommettere alla roulette del casinò finanziario. Proprio perché la velenosa potenza del suo gioco d’azzardo è immateriale, gira vorticosamente e sfugge a monitoraggi e rintracciabilità, si avvale di scatole cinesi, di soggetti paravento, si sottrae al fisco grazie a sempre più numerosi paradisi esotici e non.

Fosse così, invece, si stesse davvero ricostituendo, sia pure lentamente, una classe imprenditoriale che vuole rimettere in moto il meccanismo delle produzioni, che grazie al suo profitto, proprio come la manina disegnata da  Adam Smith, fa scendere sulle nostre teste in penitenza la impalpabile polverina di un benessere diffuso, fosse vero che esiste  qualche speranza sulle sue capacità  di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite parassitarie, allora si potrebbe dar torto allo studio commissionato più di un anno fa “Gini-Growing inequality impact”, che mise in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Allora si potrebbe smentire la religione neo liberista che si fonda sul credo  che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita, giustificando  la corsa folle e dissipata alle privatizzazioni, alla deregulation dei mercati finanziari,  per permettere alla libera iniziativa di dispiegare liberamente tutta la sua potenza ferina. Allora avrebbe ragione chi mette in guardia dalla tentazione di detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi, che  congelerebbe iniziativa, promuoverebbe delocalizzazioni, impoverirebbe con un effetto cascata tutta la società.

Come se tutto ciò non fosse già avvenuto, come se, è perfino banale ripeterlo, non avessimo ormai tutti conoscenza delle ricadute nefaste dell’austerità, come se non fosse evidente il danno prodotto dall’assoggettamento degli stati e dei governi all’imperialismo finanziario.

Come se i veri ricchi, meno identificabili di quelle famiglie immortalate da Forbes come dai settimanali di gossip, meno mondani dei tycoon stesi sul ponte dei panfili o ai bordi di smisurate piscine, non appartenessero, sia pure più appartati e anonimi, a quella cupola  planetaria, costituita da grandi patrimoni, da alti dirigenti del sistema finanziario, da politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, da magnati dell’informazione, insomma da  classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e è cresciuta in paesi che si affacciano sullo scenario planetario, grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato. E che rappresenta  decine di trilioni di dollari e di euro che per almeno l’80% sono costituiti dai nostri risparmi dei lavoratori,  che vengono gestiti a totale discrezione dai dirigenti dei vari fondi, dalle compagnie di assicurazioni o altri organismi affini. E che è servita da  quelli che qualcuno ha chiamato i capitalisti per procura, poteri forti per la facoltà che hanno di decidere le strategie di investimento, i piani di sviluppo, le linee di produzione anche di quel che resta dell’economia reale, secondo i comandi di una cerchia ristretta e rapace, banche, imprese, investitori e speculatori più o meno istituzionali e più o meno illeciti per via di fosche alleanze e di coincidenza di interessi e modalità, ma anche a causa di un comune disprezzo per regole e leggi, quei lacci e laccioli che, nel contesto democratico, dovrebbero ostacolare profitti illegali, accumulazioni tossiche, ricchezze letali.

Cinici e bari si susseguono con l’istinto a entrare a farne parte di quella cupola, a tutelarla perché finanzi e promuova aspirazioni e ambizioni, a giurarle eterna ubbidienza perché garantisca poltrone e privilegi.

Cinici e bari ogni giorno rivendicano una necessaria, per non dire doverosa,  neutralità morale che avrebbe lo scopo di assicurarci la felicità grazie alla  pacificazione dei soldi con l’etica, chiudendo un occhio realistico e pragmatico sui  vincoli sempre più stretti tra finanza  e criminalità, in una interazione visibile di modalità, sistemi, procedure, modelli organizzativi. E che nel nostro Paese assume fattezze particolari, se convive l’abitudine arcaica dell’intrallazzo con la ‘grande organizzazione manageriale’, che piace tanto agli arrivisti della Leopolda, tirati su col mito di Gekko, sia pure passato per Arcore.

Che gliene importa delle nostre famiglie, delle nostre vite, del nostro Paese?  se come ebbe a dire il guru dei paradisi fiscali, Adam Starchild: “Home  is where money is”. E se, purtroppo, erano i nostri.