Anna Lombroso per il Simplicissimus

Felice Casson, l’ex magistrato, da otto anni senatore del Pd, partecipa alle primarie per la scelta del candidato del centrosinistra a sindaco di Venezia.

La delega in bianco ai tecnici non è certo una novità. Viene favorita dal sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”. Viene suscitata dalla rinuncia alla rappresentanza degli interessi generali nel timore di compiere scelte impopolari, che potrebbero recare danno al consenso e ridurre il favore degli elettori. Viene giustificata  dopo una irreparabile caduta di autorevolezza di parlamento e istituzioni nell’auspicio che un approccio manageriale  e  realizzazioni puntuali e sempre verificabili, restituiscano affidabilità e quindi fiducia. Viene travestita da azione di salute pubblica dopo le Caporetto dell’onorabilità della politica  a causa degli scandali, delle diffusissime e quotidiane vicende di privilegi e corruzione,  del degenerarsi del confronto  impigliato nella trama di una competizione senza tregua, o anche della ricerca sterile di intese tattiche senza strategia e senza idee, cui sembra preferibile far subentrare una più pragmatica azione di governo.

 

Così è stata forte – ed universale – la tentazione di collocare idraulici salvifici alla gestione del territorio, autisti non abbastanza prudenti ai trasporti, ragionieri micragnosi alle finanza,  geometri demiurgici all’edilizia, a un tempo parafulmini e burattini, commissari incaricati e fantocci parlanti per bocca del  ventriloquo. Perché il ruolo dei tecnici altro non è che quello di eseguire al posto di rappresentanza ed esecutivo, quello che rappresentanza ed esecutivo non vogliono fare in prima persona. Non quello che non sanno fare, perché non si è mai data una onesta dichiarazione di impotenza, né tanto meno una asserzione di incapacità, neppure una riluttante confessione di inadeguatezza.

Ma siamo anche andati peggiorando, schierando lobbisti a guardia dei loro diretti interessi, imprenditori a curare  garanzie padronali, banchieri a tutelare patrimoni personali o recinti finanziari, giuristi a confezionare leggi in favore di singoli, dettate dalle multinazionali, redatte in studi internazionali senza patria né onore né deontologia.

Così in una tardiva e scoraggiante ripetizione delle patetiche astuzie e degli illusionismi cosmetici del dopo Tangentopoli è tornata l’ora di sciorinare integerrimi magistrati, gendarmi irreprensibili, piedipiatti in odor di implacabilità per restituire onore a istituti svergognati, dare un po’ di guazza al fisiologico giustizialismo della c0osiddetta società civile, soffiare polvere negli occhi a disillusi e incazzati, persuadendoli che c’è chi fa la guardia per loro, chi vigila anche al loro posto, chi si prende cura dei loro beni materiali difendendoli da grassatori, filibustieri e banditi, che a quelli immateriali ben più preziosi  siamo ormai rassegnati a rinunciare.

E allora basta il marchio d’origine, basta la rintracciabilità anche remota della vocazione o la rivendicazione della missione svolta in tempi lontani ed entusiasti a dare smalto, a confortare sulla scelta del meno peggio, come fosse naturale dover decidere sull’impossibile alternativa: onestà o competenza, integrità o capacità. E come se non sfilare il portafogli dalle tasche dei cittadini fosse condizione necessaria ma addirittura sufficiente per il buon governo. E meglio ancora se vale come simulacro, se il ruolo non è sostenuto da regole, se la reputazione non si colloca su una struttura di poteri adeguata, se la libertà d’agire è limitata, condizionata in nome del pragmatico realismo, dalla necessità di corrispondere ai diktat   della crescita, all’imperio del profitto, secondo il mantra governativo.

Tuto sta a contentarse, ho sentito dire a Venezia a proposito della candidatura di Casson a sindaco, come se a salvare la Serenissima bastasse una scelta abilitata per curriculum a fare pulizia in una città oltraggiata da un malaffare che ha innervato tutto il tessuto sociale e economico, con una indole al crimine infiltrata in tutti gli interstizi compresi gli organi di vigilanza, controllati e controllori, enti e rappresentanze. E dove anche senza Pignatone ad ognuno appare chiaro che metodi e sistemi, intimidazioni e corruzione, voto di scambio e ricatto, finanziamenti occulti e favoritismi espliciti si sono resi possibili grazie a una impalcatura di leggi speciali, provvedimenti ad hoc, pretestuosi ricorsi a eccezionalità ed emergenza fittizie, in modo da sovvertire priorità, esigenze, competenze, ruoli e funzioni, dando legittimità a pratiche inopportune e legalità a ciò che è irregolare, proprio come avviene là dove a comandare sono i cartelli, le mafie, la criminalità organizzata, l’arbitrarietà diventata sistema.

Tuto sta contentarse, e così ci si accontenta se a proclamare “basta politicanti” non è un  homo novus, ma un senatore dal 2006 e consigliere   a Venezia dal 2005,  lo stesso che quando si è rivelato tutto il veleno del Mose ha dichiarato che era “dal 2009  che  stavano emergendo delle responsabilità dopo la diffusione della relazione della Corte dei Conti sul Mose tanto che a qualsiasi persona con un po’ di buon senso civico sarebbero dovuti venire i capelli dritti … “ e che “si sarebbe dovuto intervenire in maniera pesante, e invece non è successo niente”.a cominciare da lui. Ci si accontenta se si tratta di uno “stanziale” nel partito che sta promuovendo lo stravolgimento della Costituzione per favorire soluzioni autoritarie, che ha promosso la fine del lavoro a vantaggio della servitù,  che per “sviluppare” l’Italia programma le stesse grandi opere che servono a moltiplicare corruzione oltre che oltraggio al territorio, perché l’alternativa di “sinistra” in città è un antagonista con un patrimonio di oltre una ventina di  immobili,  perché conforta che annunci con orgoglio che nella sua squadra ci saranno solo incensurati, e vorremmo ben vedere.

Tuto sta a contentarse. Del minimo, dunque, certificati di buona condotta al posto di curricula, onestà come unico requisito in mancanza di competenze, la candidatura in un città unica, come fuga da una esperienza politica deludente: “In Parlamento incido poco, me ne torno a Venezia”, ma con un salvagente pronto:  “Se fallirò a Venezia, continuerò le mie battaglie in Senato”, proprio come le cerchie bi partisan di inamovibili e irriducibili, cui ci hanno abituati.

Tuto sta a contentarse:  se non si hanno ambizioni avide, interessi privati, arrivismi sfrenati, attaccamenti irremovibili, se non si sognano radiose visioni per il futuro, se la rabbia non muove ad assumersi responsabilità e caricarsi di impegni,  se le ingiustizie non smuovono ansia di riscatto come tante volte successe in quella vecchia città, allora non resta che accontentarsi di brontolare come el Sior Todaro.