Anna Lombroso per il Simplicissimus

«Un giorno i nostri nipoti andranno a visitare i musei della povertà per vedere che cosa fosse», è la convinzione di  Muhammad Yunus,  vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2006, il  “banchiere  dei poveri”, economista più ottimista di Pangloss.

Dubito che la povertà sia soggetta a storicizzazione, diventi fenomeno da ricordare a scopo pedagogico. Al contrario pensando al  Dickens World, complesso dedicato ai romanzi dickensiani, definito dai promotori “Attrazione tematica capace di stimolare i cinque sensi dei visitatori” per commemorare, con le figurine di quell’infanzia costretta alla fatica, un tempo di tremende ingiustizie, non si può non riflettere sull’implacabile avvitarsi della spirale della storia intorno all’eterno perno dello sfruttamento, delle disuguaglianze,  dell’iniquità.

Perfino il Sole 24 ore se ne accorge, pubblicando  i dati della Bnl sulla ricchezza    finanziaria detenuta dalle “famiglie italiane”,  che nel 2014 ha toccato i suoi massimi storici, superando i livelli del 2006-2007, gli anni pre-crisi. La ricchezza mobiliare (conti correnti, azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni), scrive il quotidiano di Confindustria,  è salita a 3.858 miliardi, battendo il precedente record di 3.738 miliardi del 2006 e crescendo di 400 miliardi dal 2011, mentre il saldo attivo dei nuovi flussi di denaro investito è stato nei primi 10 mesi del 2014 di ben 110 miliardi. Ma si tratta di capitale “disponibile”, che non viene speso, non viene immesso nel circuito dell’economia reale, ma viene messo da parte, immobilizzato per mesi se non per anni. Produce si, ma solo se  le borse e i bond salgono, un poderoso effetto ricchezza che si accumula in pochi forzieri, visto che in Italia il 10% della popolazione detiene il 50% della ricchezza complessiva, quindi quei quasi 4.000 miliardi di patrimonio sui conti correnti, nei fondi comuni, nelle polizze,  quei 2.000 miliardi impiegati in Borsa e in Btp,  sono appannaggio di 2 milioni di famiglie italiane sui 20 milioni di nuclei familiari.

Quelle che la Bnl chiama impropriamente “famiglie italiane”, quella che la Bnl chiama sfrontatamente ricchezza finanziaria, evocando un confronto tra sfrenati costumi individuali  e voragine del debito statale, tra opulenza privata e pubblica miseria, è semplicemente il ritratto della rendita, quella che non si tassa mai per non spiacere a certi amici, padroni  e protettori, degli azionariati che pretendono venga premiato il profitto senza fatica, delle dinastie che esigono venga appagata un’avidità senza costi, senza investimenti in produzioni, occupazione, innovazione, progresso.

Così l’attrazione tematica dickensiana nel rappresentare il passato ottocentesco ritrae con tremendo spirito profetico il nuovo e arcaico feudalesimo del nostro Duemila. Che in Italia ha il suo laboratorio sperimentale grazie l’incarico dato a un governo di kapò di realizzare la moderna miseria nella quale staranno male tutti salvo quel 10% della popolazione: lavoratori, ceto medio, stato, enti locali, servizi, assistenza, istruzione, cultura, territorio.   L’opportunità infame conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare attraverso accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come effetto inevitabile una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil, come prevedibile conseguenza una contrazione dei consumi,  compresi quelli primari.  Ma un altro impoverimento prodotto dalla “riforma” del lavoro è quello che affliggerà la competitività, protagonista del mantra del ceto politico, paradossalmente tradita nei fatti:  l’uso sfrenato del precariato, la rimozione di qualsiasi forma di  politica industriale, condannerà le imprese italiane agli ultimi posti sullo scenario mondiale.  Se  la legge permette  loro di pagare salari miserabili, quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, sarà pari a zero.

Ma perché non dovrebbe essere così se la cultura d’impresa è diventata la scienza di ottenere il rendimento più alto possibile tramite transazioni speculative, aventi per oggetto azioni, obbligazioni, polizze, derivati? Se il guadagno si procura davanti a una schermata trasferendo capitali da un pacchetto azionario all’altro, da un investimento all’altro e in pochi secondi? E se la conversione di garanzie e conquiste in “occupazioni atipiche”, in mobilità, in precarietà corrisponde alla determinazione di rispecchiare nella flessibilità del lavoro la flessibilità necessaria alla circolazione di capitali, di soldi sia pure immateriali, di profitti sempre più ingiusti e perversi? Cosicché un lavoro tradotto in merce possa essere comprato, svenduto, scambiato, affittato alla pari di un’attrezzatura, un macchinario, un utensile? E dell’uomo che lo svolge?

Non occorrerà andare al Dickens World per una escursione virtuale nella povertà di Oliver Twist o di Davide Copperfield, la Londra dell’Ottocento è già qui.