parrucchiere nel XVIII secoloAnna Lombroso per il Simplicissimus

Mi ero ripromessa di scrivere della Moretti – quella che “la Bindi ha offeso la bellezza” e in attesa che la Bindi rispondesse “la Moretti offende l’intelligenza” – come icona molto rappresentativa della cacocrazia, l’oligarchia dei brutti dentro, dell’ambizione e della vanità come irrinunciabili virtù politiche, dell’arrivismo come necessaria qualità per affermarsi, della visibilità soprattutto mediatica che sostituisce la reputazione, della competenza come accessorio pleonastico e inessenziale dell’azione di governo rispetto  al conformismo e ad una volubile ubbidienza a chi “paga” e appaga di più. Ed anche come figurina Panini dell’album dei carini per il rinnovamento, che aggiungono un elemento in più al carnet delle disuguaglianze, come aveva cominciato a fare in forma meno strutturata il puttaniere con la sua estetica di regime, premiando le più siliconate, le più levigate, le più poppute, cui ora si aggiungono, a smentire il sessismo maggioritario, oltre alle maggiorate,  alle inespressive avvenenti, le carucce di paese,  i bellocci, gli imbrillantinati,  gli zerbinotti, tutti più meritevoli rispetto alle intelligenze, ai saperi, ai talenti, alla preparazione.

Ma cosa possiamo aspettarci dai Gozo, dalle Moretti,  dalle Boschi che dalle pagine di Vanity Fair al posto di Rinascita ci vogliono persuadere che uguaglianza vuol dire impiegare gli 80 euro per andare in palestra o dall’estetista che l’acrobata elettorale in attesa delle primarie di Miss Italia, considera una esigenza vitale.

Ci sono cascata anche io nel chiamare le esplosioni di conflitto nelle periferie una guerra tra poveri. È solo una guerra contro i poveri che questi sciagurati senza ne arte né parte, inadeguati, incompetenti, ignoranti conducono chiusi nelle loro fortezze, imponendo ai poliziotti e presto all’esercito, pubblico o privato, di fare la guardia e pestare per difendere i loro vergognosi privilegi e quelli dei loro padroni, dopo aver sospinto nelle trincee i poveracci di ogni colore, etnia, religione, accomunati da antiche e nuove povertà, dopo averli rinchiusi nelle stesse gabbie e condannati alle stesse galere nella speranza che si divorino tra loro.

In quel gioco di menzogne, praticato in nome di una “maggioranza” fittizia, quella di voti sempre più esigui, rispetto a ragioni e interesse generale, quella della concordia e identità di obiettivi tra parti motivate solo da pulsioni personali, private e proprietarie, raccontano che quella che vogliono ristabilire – buttando per strada senza tetto, tagliando i servizi essenziali,  ragazzini senza patria, dando spazio e spago ai soliti sospetti e nutrimento al razzismo inconfessato degli italiani brava gente – la legalità, loro che delle leggi hanno fatto terreno di scorrerie, loro che sconfessano le regole perché ostacolerebbero il guadagno di pochi, loro che  impongono obblighi che manomettono la Costituzione e che dovremmo  accettare e sopportare per causa di forza maggiore, ma soprattutto per punirci di aver voluto troppo, in beni e diritti, per ridurci in massa ricattata e umiliata da muovere come un esercito di diseredati pronti alle schiavitù. Così che in nome della loro pretesa legalità su misura e ad personam si esclude la legittimità,  si offende lo stato di diritto e si altera il principio stesso di giustizia, rompendo il patto di fiducia dei cittadini e di chi lo vuol diventare con lo stato, come si è spaccato il compromesso tra lavoro e capitale  possibile solo e unicamente grazie alle lotte e alle conquiste dei lavorato, oggi cancellate per decreto.

Le città più ancora delle fabbriche sono il teatro dove si consuma questo delitto contro la democrazia, dove l’urbanistica è diventata la disciplina del controllo sociale, dove si cementa per appagare l’avidità insaziabile dei costruttori, mentre solo a Milano sono almeno 8 mila gli alloggi vuoti, mentre a Roma sono centinaia gli stabili fantasma che si sgretolano disabitati, dove i richiedenti asilo vengono confinati in campi già disonorevoli e offensivi di civiltà e umanità, in modo che diventino ancora più esclusi tra gli esclusi, dove i colpevoli di clandestinità sono esposti al contagio di altre trasgressioni, dove hanno successo le parole d’ordine e le provocazioni fasciste, razziste, xenofobe. E dove la globalizzazione si manifesta nella sua forma più devastante, promuovendo insanabili e crudeli disuguaglianze: i ricchi nei loro quartieri fortificati, dietro  le ardite facciate in vetro e acciaio nelle quali si specchia la spietata modernità  e i poveri confinati in slums, bidonville, quartieri di cartone cartamato,  periferie senza illuminazione, senza gas, senz’acqua, che si assomigliano sempre di più, favelas di São Paulo  e di Rio de Janeiro dove si vive costantemente sotto la minaccia  di frane e smottamenti, le callejones di Lima costruite in buona parte dalla Chiesa cattolica, uno dei maggiori proprietari immobiliari della capitale peruviana, dove i più dinamici sono i sorci, i “quartieri” realizzati  dalle Triadi di Hong Kong, sorti con materiali di scarto perfino sui tetti o dentro i sistemi di aerazione degli edifici.

Questa è l’uguaglianza che perseguono, quella che rende tutti uguali – salvo loro – nel sottosuolo dell’odio per i proprio simili e affini, nella giungla del risentimento scatenato contro chi ha ancora meno,  nella palude di chi  ha perso il coraggio che viene dalla debolezza e che arma la fionda della ragione, della dignità, del diritto.