Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mentre noi dormiamo Freud lavora. E anche quando siamo svegli. Sarà per quello che durante uno di quei suoi comizi a porte chiuse con l’euforbia e il ficus al posto degli operai in ferie coatte, guardando compiaciuto il  confindustriale bresciano rincuorato dal finanziatore della Leopolda neo iscritto, che  dice: «Il sin­da­cato è un osta­colo sulla strada del rilan­cio dell’Italia»,  e dopo aver rivelato che  «c’è un dise­gno cal­co­lato, stu­diato e pro­get­tato per divi­dere il mondo del lavoro», è scivolato in un lapsus eloquente: “fare gli italiani vuol dire realizzare cose che nessun altro sa fare”.

“Fare gli italiani”, come li vorrebbe Toto Cotugno a Sanremo, Woody Allen a Hollywood,  il vecchio sussidiario con le pagine dedicate al popolo di santi, navigatori e poeti, gli stilisti del made in italy  nostalgici della Milano da bere. “Fare gli italiani”, non troppo laboriosi ma creativi, meglio se individualisti, meglio se litigiosi, meglio se divisi  e invidiosi. “Fare gli italiani”, conformisti, mediocri, scanzonati, codardi, Albertisordi, ma preferibilmente senza riscatto. “Fare gli italiani”, in modo da corrispondere a tutti gli stereotipi, clientelismo, familismo amorale e traffichini, corrotti, deboli, così diventa inevitabile, anzi doveroso applicare loro una severa pedagogia, costringerli alla fatica, alla penitenza.

“Fare gli italiani”, come erano, come si sono descritti e come li hanno raccontati, quando erano un popolo di una nazione nuova con una democrazia fragile, ma dotati ancora di una memoria collettiva fatta di ubbidienza ma anche di riscatto, ora  retrocesso a marmaglia, a plebe, a massa indistinta. “Fare gli italiani”, interpretazione alla quale ogni tanto  il segretario-presdente si presta come un guitto, quando sempre più raramente si mette nei panni dei lavoratori, lui che il lavoro non lo conosce, dei pensionati, lui che i pensionati li avvilisce, delle donne, lui che le usa come hostess, soddisfatte e appagate, nei suoi convegni e nelle sue cene elettorali, nei malati di Sla, lui che dopo la doccia taglia i fondi per la loro sopravvivenza dignitosa.

Ogni tanto, raramente, lui “fa l’italiano” per compiacere la ciurmaglia, che immagina supina davanti ai teleschermi, schermata dai vetri fumè della macchina,  tollerata solo se selezionata per le sue convention di vendite piramidali, altrimenti tenuta lontana dietro ai cordoni di sicurezza, sprovvista degli odiati intermediari, siano sindacati o partiti,  come era nei programmi della sua rottamazione,  intesa come pietra tombale sulla forma partito  messa da un  membro della vecchia nomenclatura che ha guadagnato  la leadership del partito attraverso i media e i gazebo e il governo   grazie a  un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori  dalle istituzioni e – è ormai dichiarato – contro di esse.

Ogni tanto lui “ha fatto l’italiano” per mostrare di essere uno di noi, per persuaderci di essere fuori dall’arcaica aristocrazia, dalla tossica oligarchia dei politicanti, per convincerci di aver spezzato la catena di comando della struttura elitaria,  quella che copre reati, comportamenti illeciti o inopportuni   individuali  grazie a  un cordone sanitario di correità e corresponsabilità.

Sempre “fa l’italiano” come  dipinge l’italiano il vertice dell’impero occidentale scricchiolante, infingardo, traditore, Badoglio, arlecchino e leporello in una commedia dell’arte dove recita il burbanzoso coi deboli e il cortigiano dei potenti, con l’indole del sottobanco, dell’opacità, delle pastette, delle finte baruffe come i guappi del rione che si fanno tenere dagli altri teppisti perché “sennò l’ancido” il finto nemico col quale si sono messi d’accordo prima, complici della rapina, dello scippo, della coltellata alla vecchietta.

Eh si, “fa l’italiano” del volemose bene, dell’ Italia “unica e indi­vi­si­bile di chi vuol bene ai pro­pri figli», e non è difficile dimostrarlo se nati da lombi privilegiati, protetti, garantiti per prerogative di dinastie anche quelle un po’ straccione del piccolo notabilato di paese, dell’indotto berlusconiano, quando al tempo stesso conduce una lotta divisiva contro i figli degli altri, i nostri, condannati all’instabilità, alla precarietà, all’incertezza, all’emigrazione, né più né meno di quelli che arrivano qui di passaggio, preventivamente puniti per il reato di disperazione e confinati in lager o respinti come pesi ingombranti e pericolosi. E infatti “fa l’italiano” quello degli italiani brava gente, “costretta”  dalla dittatura  a spia di condominio, delatrice ai fascisti, baldanzosa sostenitrice di leggi razziali intese come necessario strumento punitivo della concorrenza tra poveracci. E “fa l’italiano” quello  provinciale e meschino,      invidioso di fasti regali fino a mandare uomini in stivali di cartone e fucili inceppati a conquistare un impero, fina a adeguarsi entusiasticamente ai dettati dell’impero vero e implacabile: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; gli impegni  di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, per non fare brutta figura, per non farci riconoscere e se ci scappa la fine della democrazia, meglio così, così si mette su una colonia commissariata, che assicura la sopravvivenza del proconsole, dei suoi esattori, del suo esercito mercenario.

Ma se “fa l’italiano”, se non si riconosce come tale, sallora siamo autorizzati a trattarlo da clandestino, fare come fa lui, come fanno i suoi alterni alleati e fan, espellerlo, respingerlo, buttarlo a mare.