il Sindaco NardellaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Scuole travolte dall’acqua, sottopassi impraticabili, alberi caduti bloccando il traffico, danni all’Orto Botanico, ai Giardini di Boboli, al cimitero degli Inglesi, interrotte le operazioni ai reparti di chirurgia degli ospedali. E poi vetrate in frantumi, affreschi del Duecento ‘lavati’ dall’acqua penetrata all’interno dell’’abbazia di San Miniato al Monte, capolavoro dell’architettura romanica fiorentina, Forte Belvedere  chiuso
, a scopo precauzionale, allagata la Biblioteca Nazionale, infiltrazioni a Palazzo Vecchio e al museo di Santa Croce, gli Uffizi e gli altri musei sigillati anche per consentire la conta dei danni, che, secondo un primo calcolo, ammonterebbero a più di un milione e mezzo di euro, solo per quel che riguarda il patrimonio artistico e culturale.

Il sindaco Nardella, conosciuto ai più perché viene sguinzagliato in talk show e trasmissioni nella sua funzione di junior, di indegno ma appassionato successore, a gridare con voce chioccia i trionfi del governo, dopo aver riunito una unità di crisi ha preferito delegare bilancio e richieste alla Regione, mica voleva indispettire il manovratore con querule istanze di aiuto.

Si sa  che gli effetti del cambiamento climatico che si manifestano con eventi estremi, e lo stesso cambiamento climatico vengono assimilati  artificialmente a fenomeni “naturali” e imprevedibili. Proprio come la crisi spacciata come un accadimento ineluttabile che ha interrotto sorprendentemente progresso e dispiegarsi della crescita, ma che come i temporali, passerà. Ceto politico e economico sono concordi in un caso e nell’altro a rivendicare l’impotenza rispetto al verificarsi dell’emergenza, salvo applicare le regole inflessibili dell’austerità o usare proficuamente redditizi eventi meteorologici per alienare beni comuni “affidandoli” alle cure non certamente disinteressate di privati, sponsor, imprenditori del cemento, finanziarie.

Così a distanza di 4 giorni dalla “bomba d’acqua” abbattutasi su Firenze, condita di grandine e tromba d’aria, è caduto un prevedibile silenzio su danni e soprattutto responsabilità. La Regione ricorda i suoi stanziamenti a tutela dell’ambiente e dell’assetto idrogeologico, evidentemente insufficienti. Il sindaco tace, confidando che l’acqua sia naturalmente evaporata e con essa la memoria della collera legittima di una città ridotta a Disneyland del turismo mordi e fuggi, a “polo museale” retrocesso a luna park o a location di sfilate, cene, possibilmente promosse da generosi finanziatori dei successi del premier, da  stilisti pacchiani e sgangherati, da imprenditori del culatello da  e organizzate da agenzie  in odor di larghe intese. E i cui “giacimenti”, il “petrolio” dell’arte e della cultura vengono affittato in perenne comodato alla speculazione del marketing, che li sfrutta senza contribuire alla loro manutenzione e tutela e lesinando perfino sulla “pigione”.

Il Nardella è il delfino incaricato dal suo padrino-padrone della continuità dell’utilizzo intensivo, fino all’esaurimento, del brand, del marchio Firenze: la prima riunione della sua giunta si è svolta trionfalmente  a San Miniato , a celebrare la funzione di “cartolina”, la vocazione di interno ed esterno, di scenografia del colossal turistico, nel  quale gli abitanti, immeritatamente usufruttuari del bene che hanno ereditato, sono retrocessi a ruolo di addetti e dipendenti. Il passaggio dai mecenati agli sponsor è sancito dal cammino segnato dal monello di Rignano e percorso con rinnovato entusiasmo dal suo successore, che incarna perfettamente quella volgarità, denunciata profeticamente da qualche sparuto intellettuale critico, di Firenze, condannata alla metamorfosi della bellezza in pacchiana venalità, della cultura in profitto, dell’arte in sottiletta da infilare tra due fette di pane, a quella “omologazione del Brutto che ha trovato paradossalmente in questa città rappresentante del Bello, la sua più visibile epifania”.

E che come primi atti della sua amministrazione ha promosso l’orrenda illuminazione da night di terz’ordine di Ponte Vecchio, che arriva dopo quella della Loggia dei Lanzi, in occasione della cui “inaugurazione” lo sponsor, lo stilista Ricci, venne autorizzato per la cifra simbolica di 30 mila euro a far svolgere una sfilata corredata di danze tribali Masai dentro agli Uffizi, chiusi al pubblico per l’occasione. Ponte Vecchio requisito dallo stesso produttore di borsette,  si è illuminato a beneficio di Vip, veline e del circo renziano, nella fastosa accensione durante la quale il finanziatore si è attribuito il ruolo di filantropo per via del dono fatto alla città, che in tutto gli è costato circa 300 mila euro, ben poco rispetto alla ricaduta pubblicitaria di un’azienda  che fattura oltre 80 milioni l’anno. Sempre Nardella, nel segno della continuità (vi ricordate Ponte Vecchio noleggiato alla Ferrari, in cambio del modesto finanziamento delle “colonie” per bambini indigenti, mai rintracciato nei bilanci del Comune, come peraltro l’azione benefica?), ha affittato a 20 mila euro  la Chiesa di Santa Maria Novella, interdetta ai fedeli per l’allestimento del banchetto, come location di una cena della Morgan Stanley, banca più volte citata tra i grandi elemosinieri delle campagne del premier. A chi si lamentava il sindaco ha risposto prima che l’autorizzazione era stata data a sua insaputa, per poi rivendicare di aver alzato il prezzo della contrattazione fino a ben 40 mila euro, insomma si direbbe dalle mie parti, peso el tacon del sbrego, peggio, insomma,  il rattoppo dello strappo.

Anche da sindaco Renzi si era – fortunatamente- limitato in gran parte agli annunci: sottopassi, tranvie, pavimentazioni, rivelazioni leonardesche, facciate à la manière di Michelangelo, interessato già a impiegarla come laboratorio simbolico di quello che si apprestava a fare dell’Italia: un luogo trasandato, abbandonato all’incuria, alla latitanza e all’incompetenza della sua amministrazione e test di esperienze di totale assoggettamento ai poteri economici privati e speculativi, usando il patrimonio artistico, la bellezza, la cultura,  non per includere e integrare, come recita la Costituzione, ma per emarginare, mettere da parte,  sviluppare la disuguaglianza, occupandone i luoghi per metterli a disposizione di chi ha, chi possiede già irrinunciabili privilegi, ed escludendo chi dovrebbe esercitare l’inalienabile diritto al loro godimento.

In questo spirito si promuovono il degrado, la negligenza, la sapiente indifferenza ai pericoli della trascuratezza. In modo che un bene svalutato possa essere il bottino di chi a poco prezzo lo rileva, la preda di chi lo “valorizza” in regime di esclusivo monopolio.

È così a Firenze, a Roma, a Venezia, tremendi terreni dove si verifica la resistenza all’oltraggio, la tenuta dell’oblio del passato, la costanza della rimozione della cittadinanza e della sua dignità.  È così a Renzopoli, un paese ridotto a imitazione di se stesso e delle sue glorie trascorse, una Las Vegas del dimenticato rinascimento e della repressa democrazia.