La strategia del ragnoDomenica d’agosto con il solito temporale che ormai, per esigenze politico – amministrative, si chiama bomba d’acqua. E così mi lascio andare a qualche considerazione più generale sull’orribile stagione storica che stiamo vivendo e che sembra una di quelle storie atroci in cui il ragno paralizza la preda, vi inietta le uova e lascia che le larve crescano cibandosi della vittima ancora viva e cosciente. Basta sostituire il corpo dello sfortunato insetto con il corpo sociale e il paragone regge in tutta la sua agghiacciante realtà.

Negli ultimi anni, quelli segnati da una crisi che si è rivelata endemica e di sistema, c’è stata una inarrestabile paralisi cognitiva: sono progressivamente venuti meno i presupposti teorici e i filosofemi di carattere economico che giustificavano la diseguaglianza e anzi ne facevano il motore economico per eccellenza, così come si è rivelato priva di senso e di risorse l’ossessione privatistica che faceva dello Stato un “nemico” da abbattere. La finanza in crisi ha imposto che i suoi macelli venissero ripianati dai cittadini per tramite dello stato, si è visto che la dilagante disoccupazione può essere arginata solo attarverso investimenti pubblici e lo stesso Fmi è stato costretto a rivedere la sua tracotante e cieca avversione agli investimenti pubblici.

Dapprima non si è potuto nascondere il salvataggio delle banche da parte degli stati, poi sono fallite le politiche austeritarie che additavano la luce in fondo al tunnel grazie alla riduzione in anoressico dell’intervento pubblico e della solidarietà sociale ad esso collegata, infine sono cominciati a saltare i presupposti teorici su cui questo si basava e via via si scoprivano le magagne di una “scienza” spesso forzata attraverso furbizie, alterazioni di dati, errori di calcolo, palesi interpolazioni.  In pratica è venuta meno l’intelaiatura di quell'”apparato giustificatorio” della disuguaglianza messo a punto fin dagli anni ’80 dalla scuola neo liberista. Ed è abbastanza ridicolo il modo con cui l’informazione, quasi tutta governata in un modo o nell’altro, dal potere tenta di giustificare il divario incommensurabile tra pochi ricchi e una marea di poveri sempre in crescita attraverso il mito merito o la funzione benigna della ricchezza estrema.

E’ un compito arduo: intanto il capitalismo finanziario, nel quale il denaro crea denaro con rendimenti nettamente superiori a quella della produzione e del lavoro sposta sull’appartenenza di classe e non sul merito il punto focale dell’ascesa sociale. E poi come interpretare il fatto che il ceto dirigente guadagna oggi dalle 50 alle 100 volte in più rispetto a quello di appena due decenni fa? E’ forse 50 0 100 volte più istruito, ha studiato in scuole di business 50 o 100 volte migliori? Senza parlare della funzione della ricchezza come motore di sviluppo che è una semplice idiozia aritmetica, grazie alla quale tuttavia si sono devastati i ceti medi. Il risultato è che gli Stati Uniti, una volta favoleggiati come terra delle opportunità, si sono trasformati nel Paese con la minore mobilità sociale al mondo.

Per decenni tutto questo si è retto sul alcuni errori concettuali e fattuali., favoriti e diffusi grazie anche al sistema privatistico dell’istruzione superiore, facilmente influenzabile se non “acquistabile”, e dal ruolo assunto dagli Stati Uniti. In particolare Thomas Piketty, autore del monumentale Capitalismo nel XXI° secolo,  si è incaricato di cancellare uno dei fondamenti del credo, se non il più importante, ovvero la celebre curva di Kuznets, apparsa nel 1955 secondo cui società egualitarie sono meno sviluppate di società con spiccate disuguaglianze dove la ricchezza tende poi ad attaccarsi anche alle classi popolari: i dati presi a confortare questa tesi erano fortemente alterati  dagli eventi bellici e dal precedente riarmo che avevano portato, per esempio, ad aliquote massime  di tassazione mediamente intorno all’85% con punte del 98% come in Gran Bretagna. Si è dedotta una verità generale da una situazione assolutamente eccezionale.

Insomma ciò che vediamo al lavoro, non è la meritocrazia o la ricchezza distribuita, ma a una lotta di classe al contrario che oggi vuole raccogliere i frutti trasformando le democrazie in oligarchie, aumentando sempre più la propria fetta di bottino, servendosi e degli stati e delle istituzioni sovranazionali per eliminare ostacoli, normative e tassazioni,  riducendo lo stato a un sorvegliante, a una sorta di body guard sociale. Tutto questo, al di là del dibattito intellettuale è visibile anche ad occhio nudo, senza microscopi o telescopi di analisi e tuttavia pur essendo venuto meno l’apparato giustificatorio, le reazioni non riescono ad essere all’altezza della sfida soprattutto perché mancano di una visione globale e di un’idea di società diversa rispetto a quella introiettata. Le larve mangiano senza che si abbia la capacità di liberarsi dei veleni del ragno. L’investimento maggiore del capitalismo non è stato tanto quello di suggerire idee subliminali, di ridurre a unica possibile realtà un assetto sociale diseguale, ma di far credere che idee non ci fosse più bisogno.