Grillo e CasaleggioSussurri e grida. E comunicati stampa. Dopo la sconfitta elettorale, almeno rispetto alle attese, nel Movimento 5 stelle i nodi vengono al pettine e c’è chi diede, anche, se non soprattutto tra i parlamentari, le dimissioni di Grillo e di Casaleggio, accusandoli di aver condotto una campagna sbagliata, troppo urlata, troppo poco rassicurante per i moderati. Già da questo si capisce bene la confusione del momento, ma soprattutto tutto ciò che c’è di irrisolto fra i pentastellati: da cosa si dovrebbero dimettere i due guru del movimento visto che non hanno alcuna carica?

Qui siamo di fronte all’evidenza: nessuna forza politica, con qualunque mezzo agisca e comunque si consideri può fare a meno di una struttura politica che filtri e renda efficace e costante il rapporto tra la base e le decisioni in parlamento oltre all’elaborazione di un programma. Ai livelli a cui è giunto il M5S che rimane comunque  il secondo schieramento italiano è palesemente assurdo andare avanti con rapporti informali che alla fine stroncano il dialogo interno, lasciano via libera agli estri momentanei di Grillo, siano essi sotto forma di battute o di ambiguità profonde, come quelle sull’immigrazione e alle epurazioni a furor di rete senza alcuna intermediazione. Per non parlare delle enigmatiche esternazioni di Casaleggio che tra le altre cose è e rimane un uomo dell’establishment.  Se non viene risolto il problema della struttura e tutto rimane allo stato caotico, il movimento non ha futuro.

Detto questo ho un’opinione del tutto contraria a quella che viene generalmente espressa: Il M5S non è rimasto al palo a causa dell’eccesso di protesta, quanto proprio a causa della mancata radicalità del messaggio. Sull’euro ad esempio che è la vera questione per il futuro della Ue, non ha detto né si, né no, se l’è cavata col referendum, mettendoci accanto anche l’abolizione del fiscal compact, adozione degli eurobond, schieramento mediterraneo: insomma una galassia di cose, proclamate a parole anche da molti altri, che davano l’impressione di voler far collezione di temi alternativi senza però inserirli in una visione d’insieme. E stranamente mancava il reddito minimo o di cittadinanza che proprio nella dimensione continentale avrebbe trovato la sua giusta collocazione.

Insomma si è cercato di tranquillizzare le classi medie (ormai più per mentalità che per censo) esposte al fuoco mediatico dell’Europa bancaria. Forse, come dicono alcuni, si è pensato di aver fatto il pieno della protesta e veltronianamente ci si è spostati al centro pur rimanendo duri e grotteschi nel linguaggio (la vivisezione di Dudù, l’essere oltre Hitler), ma senza offrire al grande pubblico con il quale ci si è voluti confrontare, spiegazioni plausibili e convincenti delle proprie tesi o inserirle in un contesto complessivo di visione della società, ammesso che vi sia. Il che favorisce sempre l’attaccamento al conosciuto per quando miserabile, drammatico o ipocrita sia. Una sindrome dalla quale è stata afflitta – mutatis mutandis -anche la lista Tsipras che, almeno in Italia, si è fermata alle ovvie considerazioni anti austeritarie, qualcosa che di radicale non ha nulla se non il radicale rifiuto di prendere di petto le ragioni , le spinte e le istituzioni che guidano le scelte delle quali siamo sudditi e dunque contrastarle. Laddove la sinistra ha avuto il coraggio di dire no, come nella penisola iberica, i risultati fanno apparire il 4,1 % italiano, come un fantasma per di più incatenato alle voglie di potere di elite residuali.

E’ invece del tutto evidente che per salvare la democrazia e uscire da un declino irreversibile già scritto occorrono scelte radicali, senza se e senza ma: quelle che hanno vinto altrove visto che proprio molte sinistre e le socialdemocrazie europee hanno lasciato tutto lo spazio alle destre e ai nazionalismi di varia natura. Qualcosa che ha sbarrato la strada anche al M5S.  Occorre pugno di ferro in guanto di velluto, occorro idee chiare e parole misurate, ma decise. Non il pugno di velluto rivestito di ferro.