Abbandonare l’austerità liberista, tornare ai valori del lavoro e della solidarietà, ma conservare e anzi rafforzare il sogno europeo. Cosa c’è di meglio e chi meglio di Tsipras interpreta questa ambiziosa speranza? L’equazione è fin troppo facile per non nascondere delle trappole e infatti su questo cammino c’è una tagliola: tutto questo non può essere fatto a partire dalle istituzioni europee che ad onta dello scenario del Parlamento di Strasburgo rimangono essenzialmente una emanazione permanente di trattati fra singoli stati. Senza parlare del fatto, ahimè sconosciuto alla stragrande maggioranza degli elettori, che gli istituti che costringono concretamente all’austerità fanno parte di trattati paralleli e prefigurano l’Europa merkeliana e bancaria connessa attraverso accordi bilaterali fra il centro e la periferia.
Se anche Tsipras o qualunque altro candidato prendesse il 100% dei voti, tanto per fare un’ipotesi fantascientifica, non potrebbe fare proprio nulla perché il presidente della commissione Ue viene scelto dal consiglio dell’Unione, ovvero dalla conferenza di capi di stato e di governo europei a maggioranza qualificata. Il parlamento di Strasburgo ha la sola possibilità di non confermare la scelta, ma non quella di nominare qualcun altro. Si avrebbe dunque una situazione di stallo e di conflitto che potrebbe risolversi o di nuovo con accordo fra stati o con lo sfascio delle istituzioni continentali che appunto si vorrebbe evitare. Però supponiamo – per amore di ipotesi impossibili – che il Parlamento la spunti e che sia eletto un presidente della Commissione di suo gradimento. Sarebbe la fine della dottrina dell’austerità? Nemmeno per idea: essa come detto è attuata da trattati diversi (fiscal compact, mes e quant’altro) rispetto al diritto comunitario, che si configurano come supporto all’euro e sono totalmente autonomi ancorché resi possibili dall’esistenza della Ue.
Mi scuso per questa noiosità, ma solo attraverso una cognizione chiara di ciò che è in concreto l’ Unione che si può valutare la consistenza dei programmi e delle parole spese. Purtroppo bisogna constatare che la Ue non si può cambiare senza contestarne o programmaticamente o di fatto l’intera costruzione, che una trasformazione non può nemmeno essere immaginabile senza partire dai singoli stati che di fatto muovono la vera dialettica all’interno del continente assieme ai poteri finanziari e atlantici. Questo mette in nuova luce, certo più complessa, il significato di europeismo ed euroscetticismo di solito tagliato con l’accetta del populismo eurista, ma soprattutto mostra come l’idea di Europa non possa davvero sopravvivere senza prima essere stata messa apertamente in crisi. Per questo la via per linee interne al cambiamento della Ue, accettandone la logica e gli strumenti o mi appare come una bandiera bianca che già spunta dalla tasca oppure un miraggio dovuto alla volontà di salvare capra e cavoli: i cavoli amari del liberismo e le pulsioni ideologiche residuali. Nella realtà, quella in cui viviamo, Tsipras premier della Grecia sarebbe assai più efficace nella contestazione della logica liberista che come presidente della commissione Ue, anche se stravincesse e nelle sue file non venissero eletti, come purtroppo potrebbe accadere in Italia, personaggi di tutt’altre tendenze rispetto alla sua. Anzi a dirla tutta questa candidatura ne depotenzia le possibilità ed è come un bastone tra le ruote favorendo fra l’altro le linee di frattura in Syriza, come risulta evidente proprio dai primi risultati delle amministrative greche.
Ecco perché preferisco la contestazione, magari concettualmente insufficiente o stravagante, magari sciamannata e comica, atellana e impolitica alle sottili e ragionate rese nei fatti: solo un contrasto frontale che metta in pericolo il gioco austeritario e soprattutto le sue premesse politiche di disuguaglianza può costringere la governance europea a fare dei passi indietro e dunque ad evitare il rinascere di nazionalismi veri e non più contenibili. Con tutto ciò che segue.
E la cosa è ancora più evidente in Italia, che in questa occasione è il vero terreno di scontro continentale: se un Paese massacrato rimane nell’ovile, appoggia il progetto oligarchico promosso dai governatori che si sono susseguiti, allora vuol dire che si può andare avanti su questa strada. Di nuovo si deve constatare che per cambiare qualcosa in Europa bisogna che prima si cambi qualcosa nel Paese e che si faccia fronte al tentativo di strozzare la democrazia con i porcellum, le assemblee nominate, la cultura della corruzione e le invereconde chiacchiere da acchiappa citrulli del blocco Renzi – Berlusconi. Solo una chiarissima sconfitta della linea oligarchica, un colpo al gattopardismo da telecamera, potrà invertire la tendenza, favorire la rinascita della politica e anche della sinistra che arranca a traino. E preferisco il populismo rustico a quello falso e protervo di padroni e padroncini che fingono amore per la democrazia mentre trasudano peronismo istituzionale e mediatico.
Certo non mi aspetto molto, anzi niente, se non un vigoroso colpo di freni alla perpetuazione di un milieu politico ormai privo di senso e di direzione e pronto solo a perpetuare se stesso. Non mi faccio illusioni e del resto la recente proliferazione di titoli pro euro sul giornale che viene indicato come quello più vicino ai 5 Stelle, mi spinge a credere che le pressioni enormi dei poteri esterni e finanziari finirà per prevalere. Però senza una breccia nelle mura non c’è nessuna possibilità di impegnarsi nella ricostruzione politica, morale ed economica del Paese.
Non capisco lo scopo di quella firma. Certamente Obama (ma anche chiunque altro) non avrebbe né il tempo né gli strumenti per verificare se i condannati a morte hanno titolo per essere inclusi nella lista. Un tribunale potrebbe farlo, ma gli ci vorrebbero anni di indagini per ogni persona che compare nella lista. Dunque, la firma che Obama appone è una firma che non lo responsabilizza affatto perché egli firma non sapendo se doveva firmare o meno. Ecco perché ipotizzo che tutta la questione della firma sia solo un’invenzione mediatica per poter dire agli americani, soprattutto a quelli del suo stesso partito: “Guarda, li ammazziamo ma siamo autorizzati dal presidente”.
“…inviare una supplica ad Obama chiedendogli di intercedere per noi presso i suoi committenti…” suggerisce il Sig. Casiraghi. Obama e’ l’apice di un sistema cha ha fatto del crimine una virtu’ teologale. Del resto basta ricordarsi le effusioni e le affettuosità tra il Papa e Obama durante la recente visita. Benvenuto e adulato ospite che ogni martedì firma la lista dei “nemici” da far fuori coi drones durante la settimana. E che dichiara che gli USA hanno il diritto di eliminare (sic), chiunque si schieri contro i loro interessi, dovunque egli si trovi nel mondo.
Leggo che dopo la WW2 la chiesa “scomunicava” i comunisti, non perchè ammazzassero i nemici (con o senza drones) ma perchè “non credevano in Dio”. Altro che due pesi, due misure – qui è la santificazione dell’inferno.
leggete (!!!) :
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=71039
..ottima analisi, e… dalla nostra situazione Paese aggiungerei anche qualcosa di più del tipo: Svuotare totalmente di contenuti etici e morali il presupposto del diritto di voto, oggi sarebbe l’occasione massima per opporsi ad un sistema improduttivo, sotto ogni punto di vista, dato in conto esclusivamente a delle masse di cittadini virtuali passive di cittadinanza europea, strette nella morsa di un meccanismo di comunità da regole più che parziali (..prima che dai diritti e principi comuni) del tutto ambigue.
Io credo invece che il populismo rustico non sia affatto né populismo né rustico (almeno se si sta parlando di Grillo). Anzi, il populismo non esiste proprio come categoria a sé stante perché qualsiasi governo diventa populista quando gli conviene, come scopriamo dagli 80 euro di Renzi ma anche dai 600 e passa euro a famiglia greca di Samaras (tutto il populismo è paese, come dice il proverbio…). La rusticità, poi, è sempre un travestimento. I rustici non sono meno sofisticati dei non rustici e, anzi, dobbiamo dare atto ai leader politici di saper fare molto bene la loro parte. E, quanto al risultato, cosa cambia se le fila, sia nel caso di Arlecchino che di Pantalone, sono sempre tirate dallo stesso burattinaio?
Il giorno 25 maggio troveremo sulla scheda elettorale europea partiti che sono tutti a favore dell’Unione Europea con mille distinguo ma senza la minima intenzione di contestare l’esistenza dell’UE. Anche ritirarsi dall’euro non sarebbe una soluzione visto che, come spiega bene Mr. Simplicissimus, rimarrebbero tutti i mille lacci e lacciuoli dei trattati. E senza menzionare il fatto che l’ostacolo maggiore non è l’Europa che è una costruzione coi piedi di argilla, un castello di carte facilmente sbriciolabile, con trattati di un valore giuridico facilmente contestabile (where there’s a will there’s a way, dicono e, soprattutto, praticano gli anglosassoni) ma gli Stati Uniti che, ahimé, non hanno piedi d’argilla ma scarponi chiodati all’uranio.
Qualcuno ha una ricetta per togliersi di mezzo l’ingombrante convitato di uranio che, ricordiamolo, ci occupa “delicatamente” dal 1945 con le sue numerose basi? Se non ce l’ha, la cosa più sensata da fare è inviare una supplica ad Obama chiedendogli di intercedere per noi presso i suoi committenti in modo che gli facciano rilasciare un po’ la durezza dei vari trattati e ci restituiscano la vita che facevamo prima. Oppure, aspettiamo di sapere che cosa ha in serbo per noi. Magari, alla fine del tunnel, ci sarà la luce. O magari un altro tunnel ancora più profondo e scuro. In tutti i casi non condivido la filosofia del film “La vita è bella”. Sapere è sempre meglio che non sapere.
Mah … nessuno più parla di redistribuzione del reddito e di imposizione fiscale progressiva ????