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Armati fino alle dentiere

mostraimmagine-aspxAnna Lombroso per il Simplicissimus

Il Capo dello Stato teme e censura “anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitaristiche”. Sì dunque alla razionalizzazione delle spese per la Difesa, ma senza “indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo”.

Il fascino della divisa può assumere molte forme, ci sono croceriste che perdono la testa per il comandante, c’è da sospettare di ministri che nascondono nei loro armadi divise e pennacchi, scopriamo dietro alla facciata prefettizia di presidenti una segreta passionaccia per i Berretti Verdi e il mimetico.

Ma c’è sempre da dubitare che la seduzione della vita militare sia solo ideale, come dimostrano l’incauto acquisto di aerei taroccati, l’imposizione alla Grecia in rovina di dotarsi di armamenti, i retroscena della vicenda dei due marò, probabili assassini ma al tempo stesso vittime di un brand che obbliga i soldati italiani a fare i vigilantes mercenari a guardia di transiti inquietanti.

Si sa che la sinistra storica è sempre stata affetta da una certa diffidenza nei confronti delle anime belle del pacifismo, facendo suoi slogan quanto mai ambigui: armarsi per preparare al pace, formula particolarmente gradita a chi con la sinistra non vuole avere più nulla a che fare, preferendo alla pace la pacificazione, alle ideologie il rimescolamento artificiale di bene e male, alle ragioni e alla difesa dei deboli, la tutela di interessi e profitti. La guerra in Afghanistan nel 2001 e quella in Iraq nel 2003 ma prima ancora il bombardamento della ex Jugoslavia nel 1999, autorizzato dal governo presieduto da D’Alema, immemore anche lui dell’articolo 11 della Costituzione che “ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”, ha tolto i residui dubbi. E le bandiere della pace che sventolavano sui balconi hanno fatto presto a sbiadire che tanto l’Italia ha sempre partecipato alle missioni Nato e Onu avviate dal 2001 in poi.

E figuriamoci se in tempi nei quali chiunque dica no o sia semplicemente perplesso viene accusato di accidioso disfattismo, non finisca per subire riprovazione chi si interroga sui costi economici, sociali, politici della partecipazioni a missioni belliche, comunque vengano definite, o dell’acquisto di cacciabombardieri, o del prestarsi sia pure in ruoli subalterni a operazioni militari. E l’appartenenza al contesto occidentale, così come l’adesione al pensiero neo liberista rende fisiologicamente impossibile e inaccettabile per il nostro ceto dirigente una posizione critica contro le spese militari che denuncerebbe anche il capitalismo, le sue innovative modalità imperialistiche, il suo impegno a obbligarci a austerità intermittenti, secondo le regole della guerra in corso, mossa contro sovranità di popoli e contro le loro democrazie.

Ma sarebbe invece utile ricordare che non si parla di contesti accademici e di esercitazioni rituali, cui contrapporre altrettanto rituali evocazioni al pensiero pacifista. Consiglieremmo ad esempio la lettura del Conflict Barometer, la pubblicazione annuale dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, che nel 2012 ha monitorato 396 confitti in corso nell’intero pianeta, nove in più rispetto al 2011, 188 dei quali sono classificati come controversie e crisi, 43 “guerre altamente violente” e 165 “crisi violente”, per un totale quindi di 208 confitti armati, il numero più elevato mai registrato dall’organismo a partire dal 1945. I principali teatri di guerre note, anonime o dimenticate sono l’Africa sub-sahariana (19 guerre e 37 confitti violenti), la zona dell’Asia e dell’Oceania (10 guerre e 55 confitti), il Medioriente e l’area del Maghreb (9 guerre e 36 confitti).

E si apprende dallo stesso centro studi che nello stesso anno la spesa militare globale ammontava a 1.753 miliardi di dollari, pari al 2,5% del Pil mondiale, sostenuta per l’82% del totale da 15 Paesi, e il cui 58% è stato a carico degli Stati del nord America (40%) e dell’Europa occidentale (18%).

Finche c’è guerra c’è speranza dunque, perché, vedi caso, si tratta di Paesi appartenenti a quell’area in cui non si registrano confitti armati in corso e che, per usare le parole care ai nostri ministri da Mauro alla Pinotti, spendono per “allestire la pace”, o meglio l’ordine. Un ordine mondiale nel quale il nostro Paese, gregario e subalterno, si presta, caccia soldi per i caccia, assolve a mansioni di servizio, esporta democrazia, che tanto qui non la vuole più nessuno, partecipa a missioni umanitarie, che tanto qui di uomini ce n’è pochi e sono rimasti solo i caporali, sempre pronti all’ubbidienza.

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