untitledAnna Lombroso per il Simplicissimus

È uso di mondo attribuire ai risultati elettorali differenti significati, ora di opportuno indicatore di tendenze in atto, ora di segnale inequivocabile di scelte popolari, ora soltanto di sintomo simbolico di mali che si possono facilmente scongiurare, magari sempre con le stesse ricette e le stesse panacee.

Ieri la reazione a due esiti elettorali, quello francese e quello veneto, diversi, per carità, ma tremendamente significativi e che comunicano lo stesso messaggio, l’inadeguatezza e l’incapacità della sinistra e in sostanza della democrazia di fronteggiare gli attacchi che vengono mossi da un nuovo imperialismo, non certo inatteso o sorprendente, è stata quella di considerarli semplicemente una allegoria rozza e un bel po’ demodée rispetto alla spinta fisiologica verso l’unitarietà moderna imposta dalla globalizzazione, dall’obbligatorio europeismo, dalla coesione, non quella sociale, ma quella finanziaria, ormai egemonica.

Ma la sottovalutazione sprezzante di fenomeni accusati di populismo grossolano, antistorico e impolitico,  rende solo manifesta il patetico e difensivo arroccamento  ottuso dell’Europa senza se e senza ma, tanto che il monarca assoluto che si è impossessato di un apparentemente grigio presidente della Repubblica, in preda a uno dei suoi attacchi di autoritarismo emergenziale, ha scelto la commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine per trasformarlo nella celebrazione della ineluttabilità europea, come un destino già segnato per il quale avrebbero combattuto e sarebbero morti in tanti, nato dalle lotte di liberazione, che invece, lo dice anche il Bignami, hanno dato vita a una Costituzione oggi  tradita e manomessa e a una democrazia, oggi svuotata più che sospesa, con la speranza, truffata, di dare forma al progetto di una società senza sfruttamento, equa, solidale, oggi ridotto a un’utopia ridicola per “anime belle”.

Ma d’altra parte quelle che appunto Hegel chiamava “anime belle” e che proliferavano a sinistra mentre a destra l’anima era festosamente messa da un lato preferendo potere e oro sonante  per pochi, hanno le loro colpe.

Non ultima quella di aver permesso che la costruzione europea da visione federalista di stati e popoli sovrani si convertisse in una fortezza,  una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza, amministrata da un ceto burocratico “separato”, tenuta insieme solo da un vincolo monetario, oggi guidata da una sola nazione, la Germania, e debolmente legittimata da un Parlamento senza potere eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei,  una mutazione genetica rispetto alle speranze e agli sforzi dei padri fondatori. e che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà.  E quella di subirla, ora e domani, come inevitabile ed inviolabile, come un destino indiscutibile e ineluttabile, anche una volta accertato il fallimento delle sue politiche di austerità, degli aggiustamenti strutturali, delle privatizzazioni imposte e che stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini, degli effetti in termini di disoccupazione e di occupazione precaria che hanno toccato livelli altissimi, della caduta del PIL che ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di indiscutibili indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del PIL che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando tutte le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso l’irreversibile, definitiva rovina.

Se questa Europa si è fatta interprete scrupolosa della teoria degli choc abituandoci tramite traumi ripetuti ad accettare l’apocalisse prossima, sarebbe opportuno che chi è ancora dotato di un livello minimo di capacità di intendimento, che chi non ha paura di sentirsi affibbiare la definizione di disfattista, che chi non ha paura, solo perché vuole ancora vedere invece solo di guardare, di essere accomunato a forze e formazioni con le quali non ha nessuna affinità né sintonia, assumesse l’’affermazione della Le Pen, prevedibilissima, come uno choc salutare per aggirare il ricatto-padre di tutti i ricatti che per li rami stiamo subendo, l’appartenenza obbligata e imprescindibile a “questa” Europa, con quel che ne consegue.  Come uno schiaffo che ci svegli dall’isteria della crisi e dal tallone di ferro della necessità che ci vorrebbe indurre a credere alle menzogne ripetute e sfrontate  della socialdemocrazia europea  e in Italia del PD,   autori e correi  di crimini contro i popoli e  le democrazie come il fiscal compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione.

È che ci sono due modi di essere contro “questa” Europa, uno è quello di chi si propone l’affermazione egemonica di autoritarismi locali, isolati e isolazionisti, spaventati dall’irruzione di nuovi soggetti, nuovi Paesi leader, e che scelgono di alzare muri, respingere, chiudere porte e cancelli, fare pulizie interne, incrementando disuguaglianze e alimentando inimicizia. L’altro è quello di usare l’euroscetticismo a buon fine per ridisegnare un progetto federale in grado di proporre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli.

Sotto il fascismo e sotto il nazismo sembrava illusorio e utopico pensare che fosse possibile affrancarsi e conquistare la libertà dalla tirannia e dallo sfruttamento. Oggi, quando sembriamo inadeguati a difendere le nostre democrazie interne, appare altrettanto chimerico e irrealistico realizzare una democrazia sovranazionale. Da anni ci richiamano al pragmatismo, bollando qualsiasi pensiero “altro” di fantasia ingenua, di rifiuto della realtà, imponendo un senso comune che non può prevedere alternativa all’assoggettamento, all’acquiescenza, all’ubbidienza.

Le Pen ha usato uno slogan del ’68, ce n’est qu’un dèbut, ci conviene fare come lei e proporne uno alternativo: siamo realisti, vogliamo l’impossibile.