Ignazio Marino e Matteo Renzi ai Fori ImperialiAnna Lombroso per il Simplicissimus

E dire che non ci avevamo creduto, invece oggi abbiamo visto all’opera il partito dei sindaci, quel patto sancito da un virile abbraccio sui Fori Imperiali di Renzi e Marino, a conferma di una inossidabile alleanza in nome di strategie comuni nel nome dell’interesse generale.

Avremmo dovuto  sospettare forse della sorprendente decisione del premier più affezionato ai doppi incarichi degli ultimi 150, di lasciare Palazzo Vecchio a appena un giorno dalla nomina a Presidente del Consiglio.

Adesso sappiamo che la repentina e ferma risoluzione è stata presa prima che il Matteo sindaco fosse costretto a scendere in campo contro il Matteo premier e guidasse la sommossa di nuovi ciompi da amministratore contro le decisioni del suo governo.

Così per ora  – ma altri seguiranno – a battersi resta l’altro partner, solo, incazzato come un’ape per il doppio tradimento di compagnuccio di partito e di co-protagonista della coalizione dei podestà.

Ma come, si sarà detto, tutti hanno accusato lo sbruffoncello di Firenze di aver fatto un discorso più da sindaco che da presidente del Consiglio, proprio lui che ha fatto di quel suo localismo del suo radicamento territoriale una qualità, lui che non ha mai avuto il bene di essere eletto in parlamento, ecco che come primo atto proprio come un can de un leghista oltraggia Roma, penalizza la Capitale, taglia i soldi proprio a me, neanche fossi  il  sindaco  di Poggibonsi, proprio lui rinnega tutto il suo passato.. ma allora aveva ragione il Letta. Aveva ragione il Bersani, è proprio un ingrato..

La rappresaglia contro la mancata conversione del Salva Roma è stata fulminea. Io blocco la città, ha risposto Marino: quindi le persone dovranno attrezzarsi, fortunati i politici che hanno le auto blu, loro potranno continuare a girare, i romani no. E il catalogo degli effetti prodotti dall’insensibilità istituzionale del Renzi è lungo:  “Per marzo – sottolinea il primo cittadino – non ci saranno i soldi per i 25mila dipendenti del Comune, per il gasolio dei bus, per tenere aperti gli asili nido o per raccogliere i rifiuti”.

Ma non basta, figuratevi la figuraccia che mi costringe a fare con domineddio se non ci saranno i quattrini per organizzare la santificazione dei due Papi, un “evento di portata planetaria”.  Lo tenga a mente il premier tirato su a Comunione e Liberazione, glielo dico io che per propiziarmelo ho subito provveduto a cancellare l’elenco delle unioni civili.

E se Marino tuona “i cittadini dovrebbero inseguire la politica con i forconi”  non può sfuggire che la mossa del premier di ritirare il decreto Salva-Roma per confezionare un provvedimento tagliato su misura per i tagli imposti dai capestri europei ai comuni, per dettare nomi di suoi fidi in Giunta, per accelerare la vendita di  quote della partecipata di Acqua ed energia, preambolo a un più generalizza to processo di privatizzazione dei servizie  dei beni comuni, sulla quale Marino si era mosso con cautela non per pregiudizio ideologico, magari, ma per una certa indole all’indolenza sostituita da una solerzia dispiegata nelle pedonalizzazioni, che forse il blocco della città minacciato andava nella stessa direzione.

Si sa che al premier spacconcello   piace fare la voce grossa, da vero guappo di periferia, così Marino è corso a Palazzo Chigi a scongiurare il pericolo declinato con il vocabolario del terrore: default, crac, dissesto, paralisi della vita della città, che pesa  come macigni dopo il no al decreto Enti locali, che contiene le norme indifferibili del Salva-Rom. E che spostano sulla gestione commissariale del debito una parte del deficit dei bilanci previsionali 2013 e 2014.

Marino sta sperimentando un inedito dinamismo per evitare con il commissariamento del Campidoglio, la relativa perdita della sua poltrona, l’impedimento a contrarre mutui,  il ridimensionamento   della spesa per i costi del lavoro ed il collocamento in disponibilità del personale eccedente, con pesanti ricadute sui precari, la riduzione della spesa per il personale a tempo determinato   a non oltre il 50% della spesa media sostenuta a tale titolo per l’ultimo triennio antecedente l’anno cui l’ipotesi si riferisce.

Ci sarebbe da ridere se invece non ci fosse da piangere per figure di sindaci indeboliti dal fiscal compact  e dai vari nodi scorsoi visti come misura pedagogica indispensabile per contrarre l’istinto alla dissipazione dei cittadini in spese sociali, mediche, per l’istruzione, l’assistenza, la casa, i trasporti.  Cui fa da controcanto il magniloquente ddl del tutor del governo, Del Rio, in discussione al Senato, di trasformazione  delle attuali Province in enti di secondo livello e in prospettiva in agenzie a supporto dei Comuni e delle Unioni di Comuni, in previsione delle Città Metropolitane e secondo il quale il Sindaco del comune capoluogo diverrebbe anche il Sindaco metropolitano, e il nuovo ente, che si sostituirebbe alla Provincia sul suo territorio, sarebbe governato da un consiglio, eletto da – e fra – gli attuali sindaci e consiglieri comunali, e da una conferenza in cui siederebbero tutti gli attuali sindaci.

«Affama la bestia» era lo slogan con cui Ronald Reagan aveva inaugurato il trentennio di liberismo che oggi stiamo tutti pagando. La «bestia» per Reagan era lo Stato. La pensano così anche i tardivi fan del cowboy alla Casa Bianca, convinti che la bestia da affamare  sia la democrazia, l’autogoverno, la possibilità per i cittadini e i lavoratori di decidere il proprio destino. Non hanno capito che la bestia sono loro e che dobbiamo comnciare a fare i domatori.