Questo Paese è irredimibile. Lo dico con molta tristezza, ma non si può uscire dalla situazione in cui siamo caduti rimuginando e rimasticando da trent’anni sempre le stesse cose e le stesse fesserie che piacciono alla pigra e diversamente etica classe dirigente, dimenticando completamente i dati di realtà. La vicenda Electrolux ha un significato globale nella lotta di classe alla rovescia che è stato illustrato da Anna Lombroso, ma sta assumendo anche tutte le stigmate della stupidità locale e della sudditanza ideologico – strumentale che non consente di vedere con chiarezza le cose.
Il diktat dell’azienda svedese che vuole ridurre della metà i salari è stata subito interpretata come la prova che occorre “fare le riforme” ossia sbaraccare diritti del lavoro e qualsiasi forma di contrattazione, ridurre al minimo le tutele sociali in modo da ridurre il cuneo fiscale e consentire di tagliare selvaggiamente il costo del lavoro. Insomma le solite cose che si dicono dai tempi di Craxi e che si sono via via attuate con l’unico risultato di vederci scivolare nel baratro: oggi un sesto degli italiani vive con meno di 640 euro al mese.
E queste tesi non sono smentite solo dall’evoluzione delle cose, ma anche dai numeri: il costo del lavoro in Italia è ampiamente al di sotto della media dell’eurozona e va calando vistosamente. La media è di 28 euro all’ora contro i nostri 27,4 cui fanno riscontro i 34,2 della Francia, i 30,4 della Germania, i 38,1 della Danimarca, i 37,2 del Belgio, i 32,2 dell’Olanda: ad esclusione della Francia si tratta proprio e non casualmente dei cosiddetti Paesi ricchi. Per non parlare dei salari in termini assoluti che sono tra i più bassi dell’area Ocse. Tanto bassi che l’azienda svedese ha potuto investire molto meno in tecnologia di processo nei suoi quattro stabilimenti italiani che negli altri sparsi in Europa. E che adesso ovviamente pretende che si crei una situazione polacca per evitare il rinnovamento delle linee di produzione che sarebbe assai meno gravosa in lire come del resto sarebbe molto più concorrenziale concorrenziale la sua produzione.
Dunque la vicenda Electrolux ci dice che il problema non è affatto questo, ma è paradossalmente proprio il contrario, vale a dire i bassi salari e l’arrendevolezza sindacale, la confusione e perdita di senso della politica che nel corso degli anni ha via via reso meno interessanti gli investimenti per aumentare la produttività, soprattutto in rapporto ai facili investimenti finanziari: nel periodo 2001 – 2011 essa è aumentata appena dell’ 1,2 % contro l’11,4% dell’area euro, il 26,1% della Germania. E naturalmente a questo fa riscontro la miseria degli investimenti pubblici, ma soprattutto privati in innovazione e tecnologia che sono un terzo di quelli della Francia e un quarto di quelli della Germania, la metà della Gran Bretagna e via proseguendo.
Quindi anche da questo punto di vista abbiamo perso terreno mentre si auspicava la morte dell’articolo 18, dei contratti nazionali, dei contratti a tempo indeterminato e l’agonia del welfare come medicina salvifica. E tuttavia facendo una triangolazione sui dati reali ci accorgiamo che c’è un elemento che lega tutti gli altri sulla via del disastro: ovvero una produzione a bassa e media tecnologia, polverizzata in una miriade di aziende piccole e piccolissime, poco irrorata da investimenti, ma sbalzata in un mondo con salari e sistema dei prezzi in moneta forte. E non solo: con una divisa che non può essere gestita in nessun modo, che rende impossibile la competitività monetaria e che adesso grazie alla tesi parossistica che il debito pubblico sia il male assoluto così da accontentare le necessità immediate e le prospettive politiche della finanza, ha anche reso impossibile una nuova stagione di investimenti per tentare di recuperare il terreno perduto invece di raschiare ossessivamente il fondo del barile.
Chissà, forse è per questo che la scorsa settimana si è tenuto alla London School of economics un convegno proprio su come affrontare la situazione dopo l’euro e come contrattare l’uscita con gli altri partner. Ma in ogni caso è ormai troppo tardi: il sacrificio rituale sull’altare della moneta unica è già stato consumato e ci vorranno generazioni per uscire dalla geografia balcanica e sarmatica nella quale ci siamo cacciati.
Nel caso di questo post devo prendere una posizione di critica costruttiva nei confronti di Mr. Simplicissimus. Che i bassi salari sprofondino l’economia di un paese è chiaro: il potere di acquisto ribassato comporta una sorta di astinenza dal comperare (anch’io la sto praticando attivamente) che a sua volta scava solchi sempre più profondi nell’economia del nostro paese e la disastra.
Ma dal punto di vista di Electrolux, l’alternativa che le si presenta è o ottenere quello che chiede o, semplicemente, delocalizzare. Anche Mr. Simplicissimus dovrebbe in qualche modo considerare che se una società ha una scelta che prima non aveva, quella di spostare la produzione in paesi a bassissimo livello di salari, non si vede per quale motivo non la dovrebbe praticare. C’è forse una legge che lo impedisca? Ha la sinistra mai proposto di creare una legge che lo impedisca?
Immaginiamoci di essere noi gli amministratori di Electrolux. Per quale motivo dovremmo, oltretutto essendo un’azienda estera senza neppure uno straccio di motivazione “patriottica”, dire a noi stessi: ok, continuiamo a produrre a costo 100 mentre potremmo produrre a 50 perché così faremo felici le maestranze italiane e i sindacati. Non ha senso.
La verità è che bisogna appuntare i propri strali contro la globalizzazione, anche se forse occorreva farlo venti o trent’anni fa quando già si disegnava la nuova linea di tendenza dello sviluppo economico del mondo. Quella globalizzazione che tanti vantaggi ci ha portato, ci ha anche regalato la deindustrializzazione, la possibilità per tutte le grandi aziende di andarsene a produrre dove il lavoro costa meno desertificando il nostro paese e, dunque, inducendo una povertà che lentamente ma inevitabilmente si sta diffondendo a tutti i livelli.
In particolare, noto che se la globalizzazione comporta necessariamente deindustrializzazione, la deindustrializzazione comporta a sua volta una forte perdita del potere contrattuale di sindacati e lavoratori perché, come vediamo accadere con sempre maggiore frequenza, l’azienda grande è oggi in condizione di ricattare sindacati, lavoratori e lo stesso governo. La difficoltà di trattenere il lavoro dentro ai confini del nostro paese è a sua volta motivo di continui cedimenti del governo anche sul piano della creazione di quell’obbrobrio giuridico che sono le zone economiche speciali, ossia parti di Italia in cui non valgono le normali leggi e tutele. Le zone economiche speciali sono quello che veramente interessa alle multinazionali di ogni paese: produrre in Grecia o in Italia, ossia in un contesto maturo sia dal punto di vista tecnologico che delle infrastrutture esistenti, ma a costi cinesi o indiani!
La salvezza potrebbe venire solo dall’uscita dall’Unione Europea, dal ripristino di una moneta nazionale con o senza abbinamento all’euro, dall’uscita da ogni trattato e intesa internazionale che menomi la sovranità nazionale, dall’imposizione di dazi riequilibratori verso i paesi i cui lavoratori non godono di uguale livello salariale e tutela rispetto a quello vigente presso di noi, dall’illegalizzazione della delocalizzazione, almeno per quanto riguarda le imprese italiane, e dall’utilizzo di nazionalizzazioni e ri-nazionalizzazioni in settori critici o comunque prioritari dell’economia tra cui energia, telecomunicazioni e così via.
In questo modo non solo si ritornerebbe al passato ma si ritornerebbe anche al futuro: un futuro di normalità, di indipendenza e di crescita economica.
C’è un pericolo in questa soluzione? Sì, che non ce la lascino attuare, che chi manovra il mondo usi tutto il classico armamentario dalle sanzioni economiche ai disordini di piazza e al terrorismo (cosa già abbondantemente riuscita negli anni di piombo, per chi se li ricorda) per vincolarci a credere nella globalizzazione ed obbedire.
Ma l’inattuabilità contingente di una scelta politica non ne riduce la validità, caso mai obbliga a lavorare più in profondità per capire come aprirsi dei varchi nell’impossibile per renderlo sempre più possibile. Dopotutto esistono dei precedenti storici. Anche l’unità d’Italia era un caso di impossibilità assoluta. Eppure lavorando e scavando si intessero legami con potenze straniere che avevano motivo di favorire la trasformazione in realtà di questa “impossibilità” e a prezzo magari di sacrifici importanti (vedi Corsica e Nizza, nonché il sangue versato in innumerevoli battaglie) l’unità d’Italia alla fine si fece.
L’ha ribloggato su Quijote Travels.
Si capisce ora, come mai si è cercato in ogni modo di fare entrare in europa tante realtà di statarelli monetariamente poco dinamici, in un senso, e allo stesso tempo… farne dei validi alibi nella messa in discussione di altrettante realtà, in virtù di un “regime” decisionale sovranazionale, fondato anche sulla speculazione del più profiquo e bassissimo costo del lavoro possibile… sostenendo così gran parte della crescita di quei paesi membri con accentuate volontà di “sperequazione sociale”, nonchè… di volontà di potere gestionale.
ho deciso di boicottare qualsiasi prodotto riferibile ad electrolux e propongo a quanti hanno a cuore la giustizia di fare altrettanto.