drowning-in-bagsAltro che spot sessisti, che corpi femminili usati per fare mercato. La pubblicità punta all’anima e ci mostra uomini e donne imprigionati nei loro gadget, sommersi dalla merce di cui essi stessi sono ormai parte, soli dentro il fatuo appagamento degli oggetti. E mai come sotto Natale quando tutti , secondo la leggenda, sono più buoni e riflessivi o semplicemente forzati del cadeau, viene ossessivamente proposta alla meditazione il fondamento della verità, rolex dunque sono. O qualunque altra cosa, basta che compriate. Però vi prometto, non si tratta della miliardesima predica contro il consumismo il cui è effetto è sempre quello di  suscitare un’irrefrenabile voglia di shopping, ma di una critica antropologica al liberismo.

Il fatto è che una imponente serie di studi di psicologia sta via via scoprendo che il sistema di valori collegato al mercato ovvero quello “focalizzato sul possesso di beni e sull’immagine sociale che essi proiettano” è prima socialmente e poi individualmente distruttiva, creando solitudine, incapacità di rapporto, ansia e depressione. Da almeno due decenni si era scoperta una correlazione tra materialismo mercatista e disturbi della personalità, ma adesso si sta scoprendo un nesso causale abbastanza preciso. Nel giugno scorso è uscito uno studio (vedi nota 1) che ha richiesto 12 anni di pazienza. Prima è stato scelto un campione di 18enni e si è chiesto loro di classificare l’importanza di obiettivi diversi:  lavoro, soldi e status da una parte, accettazione di sé, simpatia e appartenenza, dall’altra. Gli stessi sono stati chiamati a 30 anni a compilare un test diagnostico standard per identificare il disagio mentale. Chi aveva puntato molti anni prima sulle cose e sulla posizione è risultato molto più suscettibile non solo ai disturbi di personalità, ma persino alle malattie.

Un altro saggio, pubblicato su Psychological Science (vedi nota 2), ha scoperto nel corso di  un esperimento controllato che le perone  ripetutamente esposte ad immagini di beni di lusso, a messaggi che li stimolano  come consumatori piuttosto che come i cittadini e alle parole associate con il comprare e l’acquisizione di oggetti, hanno un aumento immediato, seppure temporaneo, di desiderio e bulimia di possesso, ma anche di ansia e depressione. Il medesimo test ha anche rivelato un aumento della competitività e dell’egoismo e una contemporanea riduzione del senso di responsabilità sociale. I ricercatori sottolineano che siccome siamo ripetutamente bombardati con tali immagini attraverso la pubblicità e costantemente descritti dai media come consumatori, questi effetti temporanei potrebbero essere attivati ​​più o meno continuo e configurarsi come una sorta di droga che crea una seconda personalità, costantemente attiva.

Uno studio ancora più interessante ( vedi nota 3) è stato pubblicato paradossalmente sul Journal of Consumer Research. Durato sei anni ha coinvolto un campione di 2500 persone e ha scoperto una cosa piuttosto imbarazzante per gli assetti di potere, cioè un rapporto non solo bidirezionale, ma anche sinergico tra solitudine e gratificazioni materiali:  le seconde favoriscono l’isolamento sociale e l’isolamento favorisce la spinta a investire emotivamente in oggetti, soldi, posizione. Dunque un circolo vizioso nel quale l’autostima precipita, diventa merce assieme a quella acquisita, si impasta ad essa e ne diviene un correlato.

Dunque si potrebbe tranquillamente concludere che l’atomizzazione sociale è la migliore strategia di vendita e che questo stato psicologico – comune ai ricchi come ai poveri, anche se ovviamente in forme diverse – è ciò che permette il perpetuarsi di un modello economico basato sulla crescita continua, nonostante i suoi clamorosi fallimenti e le straordinarie disuguaglianze che esso finisce per creare. Proprio la stimolazione continua e senza requie finisce per rendere normale tutto questo e nascondere le vie d’uscita, lasciando solo un senso impotente di esclusione. Le ribellioni che qui e là si accendo per le deprivazioni insopportabili dentro questa antropologia, non riescono perciò a decollare, a farsi innovazione sociale, vivono dentro la fumeria d’oppio nella quale siamo stati cacciati e tendono ad essere recriminatorie piuttosto che a riferirsi a modelli alternativi. Pensare che più roba costituisca di per sé maggiore benessere è il trucco con il quale si coltiva l’infelicità di massa, lo spot supremo per i consigli per gli acquisti. soprattutto quello della schiavitù morale.

 

Nota 1 Tim Kasser et al, 2013. Variazioni di materialismo, cambiamenti nel benessere psicologico:. Prove provenienti da tre studi longitudinali e un esperimento di intervento

motivazionale http://link.springer.com/article/10.1007% 2Fs11031-013-9371-4

Nota 2 Monika A. Bauer et al, 2012. Consumismo: il materialismo situazionale mina il benessere personale e sociale. Psycological Science  23:. 517
http://pss.sagepub.com/content/23/5/517

Nota 3 Rik Pieters, 2013. Dinamica bidirezionale tra materialismo e solitudine: non solo un circolo vizioso. Journal of Consumer Research,  http://www.jstor.org/stable/10.1086/671564