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Lavoro: il terzo mondo segreto

World News - Dec. 1, 2013Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si, la strage di Prato è un trailer di quello che ci aspetta, è lo scenario di un futuro di disuguaglianze che alimentano sempre maggiori iniquità e sempre più profonde differenze, interne ed esterne, perché a tremende vecchie e nuove povertà che macchiano  tutte le geografie del mondo corrispondono smisurate nuove ricchezze che si aggiungono ad altre antiche e inviolate dalla crisi.

Si, ha ragione il Simplicissimus , resta, poco sopita, un’eco di vocazione coloniale, la stolida certezza irremovibile di una superiorità occidentale, i cinesi, come gli indiani, sono tanti e anche la loro morte è segnata dalle grandi cifre, imperi arcaici o recenti li hanno assuefatti all’ubbidienza, a vivere in città parallele o sotterranee, affollatissime e nascoste ai nostri occhi.

Ma non occorre mica andare lontano nel mondo o nella storia, non occorre ricordare piramidi egizie, i rematori delle galere che in Cina portavano avventurieri e capitani in cerca di ricchezze frutto di civiltà più antiche delle nostre. Non sono poi passati tanti anni da quel secolo breve nel quale ci sono stati lager di ideologie sataniche, ma anche quelli del profitto, anche quelli popolati di donne e di bambini. Non sono poi passati tanti anni da quando le donne della Riviera del Brenta, dopo aver lavorato in campagna, si sedevano insieme ai ragazzini a tagliare tomaie. O da quando altre donne in Campania coi loro figli ancora piccolini cucivano guanti, a pochi centesimi l’uno. E è passato ancora meno tempo da quando quelle stesse donne consideravano un successo indebitarsi per comprare una macchina da maglieria a buffo, per lavorarci tutta la notte che se passavi da quelle parti a qualsiasi ora era tutto un ronzio instancabile.

Ci voleva la radiosa globalizzazione, per rivelare che al nostro interno convive un terzo mondo che viene da fuori e uno che è stato mantenuto al nostro interno, più moderno tanto che è più elegante o pudico, chiamarlo flessibilità e non precariato, libera creatività e non ingiurioso cottimo. Per fare di noi, viziati da un impiego generalizzato di oblio e rimozione, gli ospiti infastiditi e indifferenti di “invisibili” che ripropongono il “come eravamo” negli smisurati stanzoni delle fabbriche tessili in Carolina, in Minnesota, che adesso riaprono  i battenti perché stanno tornando ondate di nuovi irregolari, nuovi clandestini, nuovi schiavi.

Il ministro Giovannini ha ritrovato l’anodino gusto per la statistica, ben riposto quando si parla di esodati o pensionati, e comunica che il “tasso di irregolarità” a Prato è del 70%. Eh certo gli è più gradita l’illegalità  quando non è targata Italia, quando ci si può sdegnare per il rapace caporalato orientale, come l’amaro tè del generale Yen, quando le morti non sono “bianche”, per una equivoca definizione o per etnia. Quando non ci si sente responsabili che sia stata smantellata la rete di controlli, quando è inevitabile che in nome della necessità si rinunci alla sicurezza, quando la crisi impone l’abiura dei più elementari e fondamentali diritti. Quando le fabbriche di auto campano di fondi e  derivati e banche vendono le auto. Quando tutte le manovre e le misure economiche  si muovono per riequilibrare il peso dell’irrefrenabile dispiegamento della finanza e della riduzione  a merce di lavoro, terra, persone, “affamando la bestia”: lo Stato, il controllo pubblico, per addomesticarli fino ad annullarli, in modo che non ci siano più ostacoli al profitto avido e illimitato. Quando è preferibile che grazie a catene di appalti e sub-appalti, a contratti “informali”, temporanei, interinali, a quella “mobilità” invocata come una ricetta prodigiosa, i lavoratori non si parlino, non si vedano, non si incontrino, non si confrontino, non si aprano a forme di mutuo rapporto e solidarietà e diventino invisibili gli uni agli altri, come bestie bendate che trascinano carri carichi dei macigni della storia che ritorna.

 

 

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