Non preoccupatesi, sono solo poveri relativi
Non preoccupatesi, sono solo poveri relativi

Parte in questi giorni la carovana di Miseria Ladra, organizzata dal Gruppo Abele con il sostegno di Libera: l’iniziativa si propone di portare all’attenzione dei cittadini e dei media – se non altro nei ritagli di tempo avanzati dai talk show – dieci proposte per arginare l’impoverimento generale e le diseguaglianze sociali, cercando di iniettare un po’ di dignità, diritti ed equità nel corpo sociale.

Dopo aver fatto il mio dovere di cronista, risparmiandovi gli “ha dichiarato”, “ha sottolineato”, “ha concluso” e rinviandovi al sito dell’iniziativa (qui), mi voglio soffermare su una cifra che i carovanieri porteranno all’attenzione della gente e cioè i 9 milioni e mezzo di persone che vivono in situazione di povertà relativa e dunque con poco più di 495 euro al mese. E’ una cifra spaventosa che coinvolge più del 15% della popolazione, ma che in realtà più che evidenziare un dramma, tende a nasconderlo. L’invenzione del concetto di povertà relativa, assieme a molti altri partoriti dalla statistica dei ricchi,  permette infatti di distinguerla dalla povertà assoluta che ha sempre numeri più bassi, salvando così le coscienze di governi e liberisti di ogni grado. Soprattutto essa restituisce una proiezione alterata delle dinamiche sociali ed economiche, smussandone e di molto la drammaticità.

Non è certo la prima volta che gli ignari cittadini si trovano di fronte ad algoritmi che sembrano essere oggettivi, mentre in realtà non sono che la traduzione di input politici. E dunque cos’è la povertà relativa? E’ un parametro che misura la difficoltà di accedere a beni servizi rispetto alla media di un’area o di un Paese, anche se tutto poi si traduce in termini di reddito medio e consumi pro capite. In sé avrebbe anche un senso qualora fosse usato in modo corretto per rimediare alle storture sociali ed economiche o come indicatore delle effettive differenze a livello continentale e mondiale o ancora come valutatore della tensione sociale. Il fatto è però che fatalmente il parametro con cui si misura il limite della povertà è convenzionale e risente fortemente delle opportunità e delle visioni politiche che regnano. Ma a parte questo, la misura della povertà relativa consente di celare l’effettivo degrado della situazione economica e di restituire cifre molto più ottimistiche rispetto alla realtà. Se infatti essa viene misurata sulla media dei redditi e dei consumi, man mano che essa diminuisce in seguito – ad esempio – di una crisi come quella che stiamo vivendo, farà si che la percentuale  di chi man mano entra ufficialmente questa fascia sarà inferiore alle effettive difficoltà in cui si trova gran parte dei ceti popolari, assaliti da cassa integrazione, disoccupazione e precarietà. In Europa poi questo effetto è accentuato da una moneta unica rigida che non permette di esprimere adeguatamente l’inflazione nazionale, già ampiamente sottovalutata dai calcoli “ufficiali” e che il cui valore è determinato dalle convenienze  dei Paesi forti.

E’ facilissimo accorgersi di questo effetto se si vanno a reperire le serie storiche della povertà relativa delle famiglie: se oggi quelle in queste condizioni al limite della povertà assoluta, sono il 12, 7% del totale, nel 2003 erano il 10, 8 nel  2003, l’ 11.8 nel 2004, l’11,1 negli anni successivi fino al 2007, crescendo poi di meno di due punti percentuali negli anni della crisi. Una rappresentazione controfattuale, ma anche ovvia, visti i meccanismi di calcolo: basti pensare che nel 2011 una famiglia era povera relativa se il limite inferiore della spesa mensile si attestava sui 1011 euro. Poi nel 2012 la media della spesa mensile per persona nel Paese è diminuito del 2%  così la soglia inferiore è stata abbassata a 990 euro, nonostante l’inflazione e il blocco quasi generalizzato di salari e stipendi ( nel 2007 era 986 euro nonostante l’flazione da allora si sia alzata di 8 punti) . Stesso ragionamento se si prendono famiglie con più di due componenti, anche se qui intervengono calcoli di compensazione per cui diminuisce il reddito minimo a persona. E’ questo anche se può sembrare un particolare, è importante perché, ad esempio, il figlio precario che non è in grado di uscire di casa fa reddito visto che per tre persone la soglia minima di consumi sale di appena 330 euro, rispetto a due.  Cosa che salva la famiglia dalla povertà statistica, ma non da quella reale. Anzi per paradossale che possa essere più aumenta disoccupazione e precarietà, più chi ha conservato il lavoro, per quanto gramo esso sia, si allontanerà dalla povertà relativa. Infatti la povertà assoluta espressa da una sola e bruta espressione di reddito è aumentata in un solo anno di quasi il 3% dal 5,2 al 7,9 per cento della popolazione e dal 2008 è pressoché raddoppiata.

Tutto sarebbe molto diverso se si stabilisse un range di reddito, variabile ogni anno a seconda dell’inflazione, invece di scegliere la media dei redditi e dei consumi che è fortemente influenzata dal 15% di popolazione ricca. Ma allora sarebbe possibile avere un quadro meno artefatto della situazione e sarebbe anche possibile puntare con più precisione il dito sui responsabili. Però finché saremo immersi in questa cultura di mercato, sarà sempre il mercato stesso a raccontare le proprie bugie.